Parliamo degli effetti dei filtri UV sull’ambiente marino, dei rischi connessi ad alcune formule e di come scegliere consapevolmente la prossima protezione solare, pensando non solo alla nostra pelle, ma anche alla salute dell’ecosistema.
Estate, vacanze, mare. Mettiamo la protezione solare. Andiamo a fare una nuotata. Gesti semplici, quotidiani, spontanei. Che hanno tuttavia effetti inaspettati, che vanno ben oltre il nostro corpo.
Usate da più di mezzo secolo, le creme solari contengono ingredienti che schermano la pelle dai dannosi raggi ultravioletti: parliamo in particolare dei filtri UV.
Questi ultimi, finendo in mare, possono però alterare l’equilibrio della vita nelle acque e la sopravvivenza degli organismi che le abitano. Accade soprattutto nel periodo estivo quando, parallelamente all’aumento dei bagnanti, si moltiplicano le quantità dei residui di prodotti solari rilasciati in mare.
I filtri UV sono presenti non solo nelle protezioni solari e in alcuni cosmetici, ma anche in prodotti “insospettabili” quali vernici, plastica o cemento. A causa dell’uso massiccio e globale che se ne fa, si stima che ogni anno tra le 6.000 e le 14.000 tonnellate di filtri UV finiscano in acque dolci e salate, nell’acqua potabile, nei fanghi di depurazione e in diversi organismi viventi. Con effetti preoccupanti per l’ecosistema.
I filtri UV possono essere di due tipi:
Sono molecole sintetiche che assorbono i raggi UV trasformandoli in calore, agendo come una spugna che cattura la radiazione solare.
Sono polveri minerali naturali come l’ossido di zinco o il biossido di titanio che respingono e riflettono i raggi UV, creando una vera e propria barriera protettiva sulla pelle, simile a uno specchio.
In breve: i filtri chimici assorbono e neutralizzano i raggi, i filtri fisici li riflettono direttamente, offrendo una protezione immediata e spesso più delicata sulla pelle.
Solo qualche numero. Durante una giornata estiva, attività comuni come nuotare, fare il bagno, giocare in acqua o fare snorkeling praticate in una sola spiaggia del Mediterraneo possono rilasciare in mare fino a 4 kg di nanoparticelle di biossido di titanio, un ingrediente comune nei filtri solari fisici. Ogni anno si depositano sulla barriera corallina oltre 2700 kg di crema solare.
Due sono i modi con cui i filtri UV possono raggiungere il mare:
Gli studi ci raccontano che questi composti sono ormai ovunque, finiscono persino in luoghi remoti del mondo come l’Artico. Filtri UV come octocrilene, octinoxato, PABA, ossibenzone e benzofenone-1 sono stati rinvenuti in mitili, crostacei, pesci, mammiferi marini, uccelli marini e coralli.
A causa della loro natura lipofila – cioè della tendenza ad accumularsi nei grassi anziché dissolversi in acqua – tendono ad accumularsi nei tessuti muscolari e adiposi degli organismi marini, dove possono persistere a lungo con potenziali ripercussioni sia per la biodiversità marina che per la salute umana.
Tra gli effetti delle creme solari sugli ecosistemi marini ci sono:
Esistono creme solari, con formule ultime nate, che promettono di proteggere la pelle dai raggi del sole con un impatto contenuto sull’ecosistema.
Per scegliere una protezione solare ecologica è fondamentale far attenzione ad alcune caratteristiche:
Le creme solari svolgono un ruolo fondamentale nella prevenzione dei danni provocati dai raggi ultravioletti (UV), come scottature, invecchiamento cutaneo e tumori della pelle come il melanoma cutaneo. Tuttavia, è importante considerare che determinati ingredienti, in particolare alcuni filtri UV chimici come l’ossibenzone e l’octinoxato e l’octocrilene, oltre a danneggiare l’ambiente, possono comportare potenziali effetti indesiderati anche sulla salute umana.
Studi clinici e sperimentali hanno dimostrato che questi ingredienti possono essere assorbiti sistemicamente, raggiungendo concentrazioni nel sangue superiori ai limiti considerati sicuri dalla FDA. L’ossibenzone, in particolare, nominato “allergene dell’anno” nel 2014, è stato rilevato anche nel latte materno e nelle urine, sollevando interrogativi sulla sua sicurezza a lungo termine. Alcuni studi ipotizzano effetti sul sistema endocrino, come alterazioni degli ormoni tiroidei e riproduttivi.
Sebbene ad oggi non siano state dimostrate in modo definitivo conseguenze clinicamente rilevanti negli esseri umani derivanti da questo assorbimento, queste evidenze suggeriscono cautela nella scelta dei prodotti solari. Una valida alternativa, più sicura sia per l’uomo che per l’ambiente, è rappresentata dai filtri solari minerali, come l’ossido di zinco e il biossido di titanio, che non penetrano nella pelle e rimangono in superficie offrendo un’efficace barriera fisica contro i raggi UV .
Al momento, in Europa non esistono ancora obblighi normativi che impongano alle aziende di sostituire i filtri solari potenzialmente dannosi con alternative più sostenibili. Le scelte delle aziende sono spinte più da marketing e sensibilità ambientale che da regole vincolanti, commenta Selvestrel – mentre l’attuale Regolamento Cosmetico europeo (Reg. 1223/2009) continua a concentrarsi principalmente sulla sicurezza per la salute umana, senza considerare sistematicamente l’impatto ambientale dei singoli ingredienti.
Tuttavia, qualcosa si sta muovendo. L’Unione Europea ha avviato negli ultimi anni un cambiamento di rotta. Con il lancio del Green Deal, una strategia a lungo termine per rendere l’economia europea climaticamente neutra entro il 2050, è aumentata anche l’attenzione nei confronti delle sostanze chimiche contenute nei prodotti di uso quotidiano, tra cui i cosmetici. All'interno di questo piano, è nata la Chemical Strategy for Sustainability, un’iniziativa che mira a rendere tutti i prodotti chimici più sicuri per l’ambiente, riducendo l’inquinamento e salvaguardando gli ecosistemi.
Nel contesto di questa transizione, è previsto anche un cambiamento importante sul piano scientifico e regolatorio: il comitato SCCS (Scientific Committee on Consumer Safety), che attualmente valuta la sicurezza degli ingredienti cosmetici, verrà integrato all’interno dell’ECHA, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche. Questa fusione permetterà finalmente una valutazione più completa, che tenga conto non solo della salute umana, ma anche del potenziale impatto ambientale, adottando un criterio più rigoroso basato sulla pericolosità intrinseca delle sostanze (hazard-based), indipendentemente dalle quantità usate.
In sostanza, l’Europa si sta muovendo lentamente ma concretamente verso una regolamentazione più completa e attenta all’ambiente. Si tratta di una fase di transizione, che richiederà ancora tempo, studi e scelte politiche coerenti per garantire la tutela della salute umana e di quella ambientale, sempre più interconnesse.
Marianna Monte | Giornalista