ultimo aggiornamento:
November 22, 2022

Sviluppo di un farmaco: come avviene e chi lo fa

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La strada che conduce allo sviluppo di un nuovo farmaco può seguire diversi percorsi.

Oggi in farmacia ci sono circa 14.000 diverse confezioni di medicine. Di queste, solo una minima parte sa eliminare la causa di una malattia, la stragrande maggioranza si occupa dei sintomi.

Ma come nasce un farmaco? Alcuni sono il risultato di grandi scoperte, altri il frutto di un'idea geniale o di osservazioni sorprendenti e inaspettate che non fanno parte degli obiettivi di una ricerca, ma sono avvenute per “serendipità”.

In ogni caso, i farmaci rappresentano una voce importante nella sanità italiana, dal momento che sottraggono oltre il 15% delle risorse del Servizio Sanitario Nazionale.

Da che cosa è composto un farmaco?

Era il 460 a.C. quando Ippocrate, considerato il padre della medicina, ha definito farmaco (dal greco pharmacon) “un preparato capace di determinare un'azione sull'organismo, modificandone lo stato esistente”. Un farmaco è composto dal principio attivo, responsabile dell’effetto curativo, e da altre sostanze, chiamate eccipienti, che invece non hanno proprietà terapeutiche. La loro funzione è facilitare la produzione del farmaco e migliorare le prestazioni del medicinale dall'assunzione all'assorbimento da parte dell'organismo.

Il bersaglio farmacologico di una medicina

Per sviluppare un buon farmaco è necessario dapprima individuare il giusto bersaglio da colpire. Generalmente si punta sulle proteine, elementi particolarmente importanti all’interno di specifici percorsi biologici, chiamati “pathway”. Un buon farmaco deve essere in grado di legarsi a una proteina in modo analogo ad una chiave che entra in una serratura. Se la chiave è il farmaco, la serratura sarà la proteina in grado di attivarsi e dare il via alla risposta terapeutica. Così come tra le chiavi ci sono quelle che entrano perfettamente nelle serrature e quelle che, invece, entrano e si bloccano, così tra i farmaci esistono quelli che si legano ad una specifica molecola, causando una risposta, e quelli che invece lo bloccano soltanto. I primi si chiamano farmaci agonisti, perché competono con molecole che si legano ai recettori, come ad esempio gli ormoni, mentre i secondi si chiamano antagonisti, perché competono con gli agonisti bloccando la loro possibilità di legarsi e agire.

Il principio attivo di una medicina

Una volta individuato il bersaglio farmacologico, si procede con l'identificazione di sostanze in grado di legarsi ad esso in modo specifico e selettivo così da ottenere un effetto terapeutico. Queste sostanze sono i principi attivi e rappresentano i precursori del futuro farmaco.

Per trovare il principio attivo si possono seguire diversi approcci. Un primo approccio, definito empirico, si basa sullo “screening” di composti già esistenti. Si analizzano vere e proprie librerie di molecole chimiche, allo scopo di individuare quella giusta come punto di partenza per costruire un nuovo farmaco.

Un altro approccio, più moderno, presuppone la conoscenza fine dei meccanismi di una malattia. In questo caso il composto viene progettato “a tavolino” (rational drug design). Fino ad ora questo secondo metodo ha generato pochi frutti rispetto alla grande massa di medicine trovate nel secolo scorso con il metodo empirico: la selezione di molecole chimiche più efficaci per un problema e meno tossiche, però, lascia in secondo piano le domande sui meccanismi d'azione.

Chi sviluppa e chi approva un nuovo farmaco?

Non esiste una sola figura addetta allo sviluppo di un nuovo medicinale. Per creare nuovi farmaci sono necessarie molte competenze diverse: servono chirurghi e patologi che conoscono bene le malattie dell’uomo e le loro manifestazioni, servono biologi che non si perdono fra i tanti processi e le tante molecole del nostro corpo, servono chimici e fisici che conoscono le leggi della materia e la sappiano manipolare, servono farmacologi che conoscono le migliaia di farmaci di ieri e di oggi comprese proprietà ed effetti, servono veterinari per sviluppare modelli di laboratorio per studiare malattie umane, servono ingegneri in grado di inventare macchine piccole e grandi per incapsulare e trasportare i farmaci, servono matematici e statistici per interpretare i numeri di esperimenti e studi clinici, servono informatici per organizzare tutte le informazioni e simulare l'incontro fra farmaco e organismo prima di trasferire la simulazione alla realtà clinica, servono manager della ricerca in grado di gestire la complessità organizzativa dello sviluppo dei farmaci e della loro sperimentazione.

Periodicamente nuovi farmaci vengono immessi sul mercato e altri invece vengono ritirati. Ma chi è che dirige queste operazioni, dietro le quinte? Le decisioni vengono prese in sede europea dall'EMAEuropean Medicines Agency. L'autorizzazione di un nuovo farmaco o una nuova indicazione terapeutica per una medicina già approvata viene esaminata da uno specifico organismo, chiamato Committee for Medicinal Products for Human Use (CHMP), composto dai rappresentanti dei 28 paesi dell'Unione Europea. La procedura di valutazione da parte del CHMP non deve durare più di 270 giorni. In caso di risposta negativa, l'industria farmaceutica ha il diritto di presentare un ricorso; mentre in caso di risposta positiva, tutti i paesi dell'UE sono obbligati a commercializzare il farmaco su richiesta dell'azienda.

L’EMA ha anche il compito di rimuovere i farmaci dal mercato quando gli effetti tossici sono maggiori dei benefici oppure quando i medicinali non presentano la stessa efficacia accertata al momento dell'autorizzazione. Purtroppo, gli effetti tossici dei farmaci si registrano sempre con ritardo, così succede spesso che la casa farmaceutica ritira il prodotto prima ancora che l'organismo regolatorio lo richiami.

Esiste, poi, un’altra agenzia regolatoria che opera solo nostro Paese: l’AIFAAgenzia Italiana del Farmaco. Le funzioni svolte da questo ente sono:

  • autorizzare la commercializzazione di un farmaco, in Italia funzione del tutto amministrativa;
  • inserire un medicinale nel prontuario terapeutico del Servizio Sanitario Nazionale, funzione puramente discrezionale, in quanto la decisione di pagare o meno per un determinato farmaco è lasciata ai singoli paesi.

Unico neo nella gestione di queste pratiche da parte dell’EMA è l’impossibilità di accedere ai dati originali su cui basa le sue decisioni, a differenza di quanto succede negli Stati Uniti dove la FDA - Food and Drug Admninistration - mette a disposizione la documentazione relativa a tutto il processo di valutazione.

Rendere disponibili i dati farmacologici, tossicologici e clinici è corretto:

  • nei confronti dei pazienti, che partecipando in modo gratuito e qualche volta anche con potenziali dischi agli studi, si sottopongono alla sperimentazione necessaria all'autorizzazione;
  • nei confronti della comunità scientifica, che mette a disposizione le scoperte e lo sviluppo di nuovi farmaci ottenute grazie a finanziamenti pubblici da parte dello Stato e alle organizzazioni di beneficenza;
  • nei confronti del Sistema Sanitario Nazionale, che rimborsa ai cittadini il costo dei farmaci, sistema finanziato dai cittadini stessi attraverso le tasse. Senza il sistema sanitario nazionale, i fatturati sarebbero certamente minori perché solo pochi pazienti potrebbero pagare somme spesso rilevanti.

Le fasi dello sviluppo di un farmaco

Lo sviluppo di nuovi farmaci è un processo che segue tappe molto definite.

Dopo aver individuato il bersaglio farmacologico e aver scelto il principio attivo più giusto, il ricercatore deve accertare la reale efficacia del composto candidato prima in modelli sperimentali e poi nell’uomo. Gli effetti vengono studiati dapprima su cellule di laboratorio (modelli in vitro) e poi nell'organismo vivente (modelli in vivo). Questi studi fanno parte della fase preclinica dello sviluppo di un farmaco, fase che precede le prove cliniche del farmaco nei pazienti e che richiede da 2 a 3 anni e che costituisce circa il 30% dell’investimento economico totale.

I test di laboratorio (preclinici) devono analizzare la tossicità, la farmacocinetica e la farmacodinamica. Attraverso opportuni test tossicologici si dimostra che l’effetto terapeutico è conseguenza del processo biologico colpito dal farmaco e, contemporaneamente, che non si accompagni a eventi sfavorevoli su altri organi o funzioni.

Poi iniziano gli studi di farmacocinetica, ovvero di quella branca della farmacologia che studia il comportamento dei farmaci introdotti nell'organismo: l'assorbimento; la distribuzione negli organi, nei tessuti e nelle cellule; le trasformazioni metaboliche; le vie e le modalità di eliminazione. Questi studi forniscono indicazioni sulla sede e sul meccanismo d'azione dei medicinali, sulla rapidità e sulla durata dei loro effetti, su eventuali fenomeni di accumulo e su altri fattori la cui conoscenza è necessaria affinché possa essere stabilita una presunta dose da somministrare all'uomo.

Infine, si valuta la risposta dei tessuti e delle cellule al farmaco, cioè la farmacodinamica.

Dall'insieme dei risultati di tossicità, farmacocinetica e farmacodinamica si ricava l’indice terapeutico, cioè l’indice della sicurezza di un farmaco calcolato dal rapporto tra l’efficacia e la tossicità di un prodotto. Idealmente ogni buon farmaco dovrebbe avere un alto indice terapeutico, e cioè dovrebbe essere molto efficace e tollerabile e poco dannoso.

Il lavoro sperimentale va poi completato attraverso gli studi di tossicità acuta e poi cronica, cioè trattamenti che durano all’inizio poche settimane e poi di più, controllando se il farmaco impatta sulla capacità riproduttiva umana e sulla cancerogenesi.

Mentre si completa la fase sperimentale, si iniziano studi anche piuttosto complessi di tecnica farmaceutica: se il prodotto va somministrato per via orale è meglio in pastiglie, compresse, capsule o ovuli? E poi: a rilascio lento o rapido? Il principio attivo, infatti, deve essere stabile per lungo tempo, non deve alterarsi e deve resistere ai cambiamenti di temperatura. Tutto ciò grazie all'aggiunta di eventuali eccipienti.

L’importanza della sperimentazione nello sviluppo di un farmaco

Lo studio delle possibili risposte a un farmaco inizia in laboratorio, nelle cellule coltivate in vitro. Questa piccola porzione del corpo umano riesce infatti a mimare, almeno in parte, la malattia e il modo in cui si intende curarla. I risultati degli esperimenti con le cellule sono sì indicativi, ma presentano comunque dei limiti:

  • le cellule crescono bene in laboratorio ma non sono rappresentative di tutte le varietà di cellule che si trovano in un tessuto malato;
  • le cellule in coltura non ricevono i segnali provenienti dalle altre cellule dell'organismo che ne condizionano il comportamento;

Le indicazioni che otterremo, quindi, non corrisponderanno alla risposta del farmaco ad un organismo completo. Per questo sono necessari i cosiddetti test in vivo, ossia su organismi integri che possono ospitare una malattia, se non uguale, assai simile a quella dei pazienti.

Grazie ai modelli in vivo si evitano sperimentazioni premature nell’uomo, che non sarebbero considerate etiche. Inoltre, si studiano gli organi in cui il farmaco può essere tossico, definendo le dosi, i tempi di somministrazione e se l'effetto è reversibile o cumulativo.

Lo studio clinico per l’approvazione di un farmaco

Nasce così il farmaco che inizia la sua carriera clinica: il trial clinico vero e proprio.

Questo percorso coinvolge volontari sani oppure pazienti critici (quelli purtroppo che hanno esaurito tutte le chance terapeutiche). In corso di studio clinico le caratteristiche del nuovo farmaco passate al vaglio sono: qualità, sicurezza ed efficacia.

La fase 1 prevede la valutazione della tollerabilità del farmaco, cioè si stabilisce la dose massima da somministrare in prima battuta o per più giorni senza produrre effetti collaterali.

La fase 2 consiste in studi preliminari per verificare sugli ammalati se il nuovo farmaco esercita effettivamente quanto è stato osservato nel corso delle sperimentazioni. Solo se la risposta è positiva si passa alla fase successiva.

La fase 3 è lo studio clinico controllato, in cui una parte dei pazienti arruolati riceve il farmaco in esame, l'altra parte dei pazienti (gruppo di controllo) riceve un trattamento di confronto che può essere un placebo, cioè una sostanza farmacologicamente inerte, nel caso in cui non vi siano medicinali di riferimento per quel preciso scopo terapeutico, oppure il farmaco migliore che c'è a disposizione. Oggi il 75% degli studi clinici utilizza il placebo quando spesso sarebbe possibile utilizzare un farmaco equivalente già disponibile sul mercato. Basti pensare che almeno il 50% dei medicinali a disposizione oggi sono fotocopie l’uno dell’altro. Basare il confronto tra il farmaco in esame con uno equivalente sarebbe più giusto e soprattutto più etico nei confronti dei pazienti. Questo permetterebbe, quindi, di valutare un farmaco non solo sulla base di “qualità-sicurezza-efficacia” ma anche sulla base del valore terapeutico aggiunto. Il risultato della fase 3 è una risposta in grado di valutare il rapporto rischio-beneficio. È importante che nei due gruppi a confronto i pazienti vengano collocati “a caso”, in gergo si dice “randomizzati”, e “in doppio cieco”, cioè né il paziente né il medico curante devono essere a conoscenza di quale medicinale viene somministrato, per evitare che aspettative o altri fattori possano influenzare il giudizio sull'efficacia e sugli effetti collaterali del farmaco in esame.

Purtroppo, non fila tutto sempre liscio: in ogni momento di questa delicata sequenza di studi è possibile che si debba ricominciare dall'inizio con lo stesso principio attivo o con altre sostanze chimiche. Si calcola che un farmaco da somministrare cronicamente richieda fino a 10 anni per essere sviluppato.

Raffaella Gatta - Content editor

In collaborazione con Silvio Garattini - Presidente Istituto Ricerche Farmacologiche Mario Negri

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