Il presente articolo fa riferimento alle conoscenze e ai dati epidemiologici disponibili a Dicembre 2024.
Nel corso degli ultimi mesi sono stati pubblicati diversi studi clinici che hanno dimostrato come il Covid-19 sia causa di complicanze neurologiche in circa il 25% dei pazienti.
Quasi il 40% dei pazienti che hanno contratto il Covid-19 attesta di soffrire di disturbi neurologici di vario tipo e gravità. I sintomi più comuni e più lievi causati dall’infezione del nuovo coronavirus sono mal di testa, disturbi della percezione di gusto e olfatto (ageusia e anosmia, rispettivamente), offuscamento della mente e disturbi di memoria.
Tra le complicanze di gravità maggiore, invece, le più comuni sono:
Inoltre, alcuni pazienti sviluppano disturbi di ansia e dell’umore, in parte imputabili alla modificazione dei rapporti sociali e alla compromissione del benessere individuale.
Vi sono diversi meccanismi tramite i quali il Covid-19 può causare delle conseguenze di tipo neurologico.
Uno dei primi inizialmente ipotizzati è quello dell’invasione diretta del sistema nervoso centrale da parte dell’agente patogeno. Infatti, i recettori ACE-2, a cui il coronavirus si lega per entrare nell’organismo ospite, ricoprono sia le cellule dei bulbi olfattivi, al di là della mucosa nasale, sia quelle del tronco encefalico, che si trova alla base del cervello. Queste due posizioni rappresentano entrambe due potenziali “ingressi cerebrali” per il coronavirus.
Al momento, comunque, la maggior parte degli studi che ha valutato la presenza del SARS-CoV-2 nel liquido che permea il sistema nervoso centrale, detto liquor cerebrospinale, nei cervelli di pazienti deceduti per Covid-19, non ha trovato forti evidenze di un’invasione diretta.
Esistono, invece, evidenze di un danno indiretto dovuto al coronavirus. In primo luogo, come è ben noto, la malattia Covid-19 è caratterizzata da gravi problemi respiratori. L’insufficienza respiratoria può comportare un ridotto apporto di ossigeno e, conseguentemente, danni cerebrali dovuti all’ipossia.
Un altro meccanismo indiretto tramite il quale il Covid-19 può causare disturbi neurologici è legato alla risposta infiammatoria. Nel tentativo di provare a difendersi dall’attacco del coronavirus, nei pazienti si innesca una risposta infiammatoria. Quando la risposta è appropriata, il paziente risulta difeso; quando invece la risposta è insufficiente o in qualche modo sregolata ed eccessiva, il paziente può esserne addirittura danneggiato. Uno stato infiammatorio protratto, infatti, rende la barriera ematoencefalica più debole. Questo tessuto, che dovrebbe proteggere il cervello impedendo l’ingresso di sostanze potenzialmente tossiche presenti nel sangue, non funziona come dovrebbe e permette l’“invasione” del cervello. Tale fenomeno innesca la neuroinfiammazione che, se eccessiva e/o protratta, può essa stessa indurre un danno cerebrale.
I pazienti Covid-19 che sviluppano manifestazioni neurologiche spesso vanno incontro ad un decorso peggiore, caratterizzato da una scarsa qualità della vita e da un più alto rischio di mortalità. Come spiegato in questo studio, coloro che sviluppano patologie neurologiche durante la degenza in ospedale hanno di solito degenze più lunghe e sono bisognosi di riabilitazione specifica, una volta dimessi dai reparti ospedalieri.
Uno degli ostacoli principali nell’identificazione di situazioni in cui si potrebbero sviluppare comorbidità di tipo neurologico è rappresentato dal fatto che spesso, per lo meno nei casi più gravi di Covid-19, questi pazienti non sono “neurologicamente esplorabili”: alcuni di essi sono intubati e sedati, e ciò non permette di poter rilevare sintomi neurologici come perdita di memoria, disturbi del linguaggio e problemi di tipo motorio. In questi pazienti, le tecniche di neuroimaging, come TAC e risonanza magnetica nucleare, possono aiutare a identificare un danno neurologico. In alcuni casi però, sia per i pazienti gravi che per quelli con un decorso della malattia più leggero, gli strumenti di imaging rischiano di non riucire ad identificare il danno neurologico.
Un metodo innovativo per identificare, precocemente e con alta sensibilità, l’eventuale sviluppo di un danno neurologico è l’analisi di indicatori presenti nel sangue, di tipo biologico o biochimico, che possono essere analizzati con precisione e che possono essere messi in relazione all’insorgenza o allo sviluppo di una determinata patologia (biomarcatori). Nel caso del danno neurologico, i livelli di alcune proteine nel sangue possono indicare se vi è in corso:
Recenti studi hanno infatti dimostrato che i livelli di queste proteine sono particolarmente elevati nel sangue dei pazienti con Covid-19 e in particolare sono associati alla mortalità, alla gravità della malattia e all'incorrenza di disturbi neurologici legati al COVID-19.
In futuro, la misurazione di queste proteine potrà permettere una tempestiva e più accurata stratificazione della gravità dei pazienti, indirizzandoli verso il percorso terapeutico migliore.
La Diffusion Weighted Imaging (DWI), una tecnica di Risonanza Magnetica sensibile al movimento delle molecole d’acqua (chiamato diffusione) nei tessuti biologici, si è rivelata particolarmente utile nell’identificazione di danni neurologici. Quando un tessuto viene alterato a causa di una malattia è possibile che la sua microstruttura si modifichi, andando a limitare libertà di movimento delle molecole d’acqua al suo interno. La DWI può essere utilizzata come marcatore di densità cellulare, anche nei casi in cui non siano ancora evidenti alterazioni nelle immagini standard di Risonanza Magnetica. Ad esempio, ictus o tumori a elevata densità cellulare sono caratterizzati da una riduzione di volume extracellulare, ostacolando il movimento delle molecole d’acqua. Al contrario, malattie neurodegenerative che determinano perdita di sostanza cerebrale inducono un aumento della diffusione.
Lo studio, recentemente pubblicato sulla rivista NeuroImage: Clinical dai ricercatori del Dipartimento di Bioingegneria in collaborazione con l’ASST Papa Giovanni XXIII, ha dimostrato, attraverso la tecnica DWI, che i pazienti Covid-19 con complicazioni neurologiche di vario tipo e gravità (perdita di gusto e/o olfatto, encefalite, deficit cognitivi e di memoria, disordini neuromuscolari e cerebrovascolari, disturbi psichiatrici) sono caratterizzati da una diffusione cerebrale significativamente maggiore rispetto ai pazienti che non avevano mai contratto il Covid-19. Tale aumento di diffusione, apparso particolarmente marcato nella materia bianca, indica la presenza di infiammazione a livello cerebrale (o neuroinfiammazione) causata dal virus.
L’aumento di diffusione è risultato maggiore nei pazienti ricoverati rispetto ai non ricoverati. Il motivo potrebbe essere che i primi hanno contratto il Covid-19 in forma più grave, e quindi il grado di diffusione è proporzionale alla gravità dell’infiammazione. Analogamente, i pazienti con complicanze neurologiche più gravi hanno mostrato alterazioni in DWI più marcate rispetto a coloro che hanno manifestato solo perdita di gusto e/o olfatto.
Infine, lo studio riporta maggiore diffusione cerebrale nei pazienti sottoposti a DWI nella fase acuta dell’infezione da Covid-19 rispetto ai casi in cui l’esame è stato svolto diverso tempo dopo aver contratto la malattia. Questo ultimo risultato suggerisce la natura transitoria della neuroinfiammazione da Covid-19. Studi longitudinali saranno comunque necessari per chiarire l’evoluzione temporale del danno cerebrale.
Un’altra tecnica di Risonanza Magnetica sensibile alla diffusione nei tessuti biologici è chiamata Diffusion Tensor Imaging (DTI). Mentre la DWI misura in modo generale la libertà di movimento delle molecole d’acqua dei tessuti, la DTI offre un livello di dettaglio maggiore, in quanto è sensibile anche alla direzione del movimento.
La materia bianca del cervello è costituita da lunghe fibre nervose che connettono le diverse aree cerebrali e ne permettono la comunicazione. Dato che nella materia bianca le molecole d'acqua tendono a muoversi lungo il percorso delle fibre, elaborando le immagini DTI con tecniche informatiche avanzate è possibile tracciare tali fibre e studiare quindi le connessioni tra le aree del cervello. La connettività cerebrale è fondamentale per il funzionamento del cervello, poiché consente l'integrazione di informazioni provenienti da diverse regioni. Un’alterazione in questa connettività può influenzare vari aspetti delle funzioni cognitive e comportamentali.
In uno studio del Dipartimento di Bioingegneria, anch’esso pubblicato sulla rivista NeuroImage: Clinical, l’analisi delle immagini DTI ha rivelato che nei pazienti Covid-19 con sintomi neurologici alcune aree del cervello presentano una ridotta connettività strutturale, che si traduce in una diminuzione della comunicazione tra determinate aree cerebrali. In altre regioni, al contrario, si è osservato un aumento della connettività, ossia una maggiore densità di fibre di connessione tra aree cerebrali. Mentre la diminuzione della connettività è causata da meccanismi neuroinfiammatori e danno tissutale, l’aumento delle connessioni in altre regioni è spiegato dalla plasticità cerebrale, che è la straordinaria capacità del cervello di adattarsi e cambiare in risposta alle esperienze, all'apprendimento, alle lesioni o – come in questo caso – per compensare i cambiamenti patologici indotti dal virus.
Lo studio ha inoltre rivelato che i pazienti con Covid-19 e disturbi cognitivi (come deficit di memoria e attenzione, confusione e disorientamento) presentavano danni più estesi alla connettività cerebrale, con alterazioni che coinvolgevano regioni chiave per le funzioni cognitive e la comunicazione tra diverse aree del cervello. Al contrario, i pazienti che durante l’infezione da Covid-19 hanno sperimentato solo la perdita dell'olfatto hanno mostrato danni più circoscritti, localizzati in aree cerebrali differenti. Questa differenza suggerisce che la gravità e la tipologia dei sintomi neurologici possono riflettere una variabilità nei meccanismi patologici, con effetti diversi sulla connettività cerebrale.
Un altro importante indicatore dello stato di salute cerebrale è l’integrità della materia grigia. La materia grigia è costituita dai corpi delle cellule nervose ed è coinvolta nelle funzioni principali del cervello, quali il pensiero, la memoria e il controllo motorio e sensoriale. Gran parte della materia grigia è rappresentata dalla corteccia cerebrale, che è uno strato di tessuto che riveste la materia bianca. Con l'invecchiamento, si osserva una lieve riduzione del volume della materia grigia e un assottigliamento della corteccia, che sono parte del normale invecchiamento cerebrale. Tuttavia, in alcune patologie, come l’Alzheimer, si verifica una riduzione molto ampia e marcata, che compromette in modo significativo le capacità cognitive e comportamentali.
In uno studio condotto dal Dipartimento di Bioingegneria, sono state elaborate e analizzate immagini di Risonanza Magnetica T1-pesate, un tipo di scansione che permette di quantificare il volume della materia grigia e lo spessore della corteccia cerebrale. I risultati di tale analisi, pubblicati su Annals of Clinical and Translational Neurology, hanno evidenziato che i pazienti Covid-19 con complicanze neurologiche presentavano una diminuzione nel volume della materia grigia e nello spessore della corteccia rispetto ai soggetti che alla data dell’esame non avevano mai contratto il Covid-19.
Anche in questo caso, i pazienti con disturbi cognitivi legati al Covid-19 hanno mostrato una perdita di materia grigia più marcata ed estesa, rispetto a coloro che hanno manifestato solamente perdita di gusto e/o olfatto. Le regioni cerebrali maggiormente colpite dalla perdita da questa riduzione del volume – come l'ippocampo, il putamen, il cingolo, il precuneo, l'amigdala, e il nucleo caudato – sono tutte coinvolte nei processi di memoria e attenzione.
Ilaria Lisi - Dipartimento di Neuroscienze
Anna Caroli, Serena Capelli - Dipartimento di Bioingegneria
Editing Raffaella Gatta - Content Manager