ultimo aggiornamento:
22/2/2023
July 12, 2021

Covid-19 e disturbi neurologici: come entra nel cervello il SARS-CoV-2?

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Il presente articolo fa riferimento alle conoscenze e ai dati epidemiologici disponibili a Luglio 2021.

Nel corso degli ultimi mesi sono stati pubblicati diversi studi clinici che hanno dimostrato come il Covid-19 sia causa di complicanze neurologiche in circa il 25% dei pazienti.

Quasi il 40% dei pazienti che hanno contratto il Covid-19 attesta di soffrire di disturbi neurologici di vario tipo e gravità. I sintomi più comuni e più lievi causati dall’infezione del nuovo coronavirus sono mal di testa, disturbi della percezione di gusto e olfatto (ageusia e anosmia, rispettivamente), offuscamento della mente e disturbi di memoria.

Tra le complicanze di gravità maggiore, invece, le più comuni sono:

  • danni cerebrali diffusi di tipo infiammatorio o metabolico a comparsa acuta, chiamati encefalopatie tossiche-metaboliche;
  • sindrome di Guillain-Barrè, neuropatia infiammatoria acquisita che tende a risolversi nella maggior parte dei casi;
  • ictus cerebrale;
  • crisi epilettiche.

Inoltre, alcuni pazienti sviluppano disturbi di ansia e dell’umore, in parte imputabili alla modificazione dei rapporti sociali e alla compromissione del benessere individuale.

In che modo può un’infezione da SARS-CoV-2 portare a un danno di tipo neurologico?

covid e disturbi nel cervello

Vi sono diversi meccanismi tramite i quali il Covid-19 può causare delle conseguenze di tipo neurologico.

Uno dei primi inizialmente ipotizzati è quello dell’invasione diretta del sistema nervoso centrale da parte dell’agente patogeno. Infatti, i recettori ACE-2, a cui il coronavirus si lega per entrare nell’organismo ospite, ricoprono sia le cellule dei bulbi olfattivi, al di là della mucosa nasale, sia quelle del tronco encefalico, che si trova alla base del cervello. Queste due posizioni rappresentano entrambe due potenziali “ingressi cerebrali” per il coronavirus.

Al momento, comunque, la maggior parte degli studi che ha valutato la presenza del SARS-CoV-2 nel liquido che permea il sistema nervoso centrale, detto liquor cerebrospinale, nei cervelli di pazienti deceduti per Covid-19, non ha trovato forti evidenze di un’invasione diretta.

Esistono, invece, evidenze di un danno indiretto dovuto al coronavirus. In primo luogo, come è ben noto, la malattia Covid-19 è caratterizzata da gravi problemi respiratori. L’insufficienza respiratoria può comportare un ridotto apporto di ossigeno e, conseguentemente, danni cerebrali dovuti all’ipossia.

Un altro meccanismo indiretto tramite il quale il Covid-19 può causare disturbi neurologici è legato alla risposta infiammatoria. Nel tentativo di provare a difendersi dall’attacco del coronavirus, nei pazienti si innesca una risposta infiammatoria. Quando la risposta è appropriata, il paziente risulta difeso; quando invece la risposta è insufficiente o in qualche modo sregolata ed eccessiva, il paziente può esserne addirittura danneggiato. Uno stato infiammatorio protratto, infatti, rende la barriera ematoencefalica più debole. Questo tessuto, che dovrebbe proteggere il cervello impedendo l’ingresso di sostanze potenzialmente tossiche presenti nel sangue, non funziona come dovrebbe e permette l’“invasione” del cervello. Tale fenomeno innesca la neuroinfiammazione che, se eccessiva e/o protratta, può essa stessa indurre un danno cerebrale.

Cosa comporta lo sviluppo di sintomi neurologici nei pazienti Covid-19 e come possiamo prevenirlo?

I pazienti Covid-19 che sviluppano manifestazioni neurologiche spesso vanno incontro ad un decorso peggiore, caratterizzato da una scarsa qualità della vita e da un più alto rischio di mortalità. Come spiegato in questo studio, coloro che sviluppano patologie neurologiche durante la degenza in ospedale hanno di solito degenze più lunghe e sono bisognosi di riabilitazione specifica, una volta dimessi dai reparti ospedalieri.

Uno degli ostacoli principali nell’identificazione di situazioni in cui si potrebbero sviluppare comorbidità di tipo neurologico è rappresentato dal fatto che spesso, per lo meno nei casi più gravi di Covid-19, questi pazienti non sono “neurologicamente esplorabili”: alcuni di essi sono intubati e sedati, e ciò non permette di poter rilevare sintomi neurologici come perdita di memoria, disturbi del linguaggio e problemi di tipo motorio. In questi pazienti, le tecniche di neuroimaging, come TAC e risonanza magnetica nucleare, possono aiutare a identificare un danno neurologico. In alcuni casi però, sia per i pazienti gravi che per quelli con un decorso della malattia più leggero, gli strumenti di imaging rischiano di non riucire ad identificare il danno neurologico.

Un metodo innovativo per identificare, precocemente e con alta sensibilità, l’eventuale sviluppo di un danno neurologico è l’analisi di indicatori presenti nel sangue, di tipo biologico o biochimico, che possono essere analizzati con precisione e che possono essere messi in relazione all’insorgenza o allo sviluppo di una determinata patologia (biomarcatori). Nel caso del danno neurologico, i livelli di alcune proteine nel sangue possono indicare se vi è in corso:

  • un danno dei neuroni (per esempio la proteina NF-L);
  • un’attivazione eccessiva delle cellule gliali del cervello (gli astrociti, per esempio la proteina GFAP);
  • un’alterazione della barriera ematoencefalica (per esempio la proteina MMP9).

Recenti studi hanno infatti dimostrato che i livelli di queste proteine sono particolarmente elevati nel sangue dei pazienti con Covid-19 e in particolare sono associati alla mortalità, alla gravità della malattia e all'incorrenza di disturbi neurologici legati al COVID-19.

In futuro, la misurazione di queste proteine potrà permettere una tempestiva e più accurata stratificazione della gravità dei pazienti, indirizzandoli verso il percorso terapeutico migliore.

Quali alterazioni cerebrali si osservano tramite Risonanza Magnetica nei pazienti Covid-19? Lo studio del Mario Negri

La Diffusion Weighted Imaging (DWI), una tecnica di Risonanza Magnetica sensibile al movimento delle molecole d’acqua (chiamato diffusione) nei tessuti biologici, si è rivelata particolarmente utile nell’identificazione di danni neurologici. Quanto un tessuto viene alterato a causa di una malattia è possibile che la sua microstruttura si modifichi, andando a limitare libertà di movimento delle molecole d’acqua al suo interno. La DWI può essere utilizzata come marcatore di densità cellulare, anche nei casi in cui non siano ancora evidenti alterazioni nelle immagini standard di Risonanza Magnetica. Ad esempio, ictus o tumori a elevata densità cellulare sono caratterizzati da una riduzione di volume extracellulare, ostacolando il movimento delle molecole d’acqua. Al contrario, malattie neurodegenerative che determinano perdita di sostanza cerebrale inducono un aumento della diffusione.

Lo studio, recentemente pubblicato sulla rivista NeuroImage: Clinical dai ricercatori del Dipartimento di Bioingegneria in collaborazione con l’ASST Papa Giovanni XXIII, ha dimostrato, attraverso la tecnica DWI, che i pazienti Covid-19 con complicazioni neurologiche di vario tipo e gravità (perdita di gusto e/o olfatto, encefalite, deficit cognitivi e di memoria, disordini neuromuscolari e cerebrovascolari, disturbi psichiatrici) sono caratterizzati da una diffusione cerebrale significativamente maggiore rispetto ai pazienti che non avevano mai contratto il Covid-19. Tale aumento di diffusione, apparso particolarmente marcato nella materia bianca, indica la presenza di infiammazione a livello cerebrale (o neuroinfiammazione) causata dal virus.

L’aumento di diffusione è risultato maggiore nei pazienti ricoverati rispetto ai non ricoverati. Il motivo potrebbe essere che primi hanno contratto il Covid-19 in forma più grave, e quindi il grado di diffusione è proporzionale alla gravità dell’infiammazione. Analogamente, i pazienti con complicanze neurologiche più gravi hanno mostrato alterazioni in DWI più marcate rispetto a coloro che hanno manifestato solo perdita di gusto e/o olfatto.

Infine, lo studio riporta maggiore diffusione cerebrale nei pazienti sottoposti a DWI nella fase acuta dell’infezione da Covid-19 rispetto ai casi in cui l’esame è stato svolto diverso tempo dopo aver contratto la malattia. Questo ultimo risultato suggerisce la natura transitoria della neuroinfiammazione da Covid-19. Studi longitudinali saranno comunque necessari per chiarire l’evoluzione temporale del danno cerebrale.

Ilaria Lisi - Dipartimento di Neuroscienze

Anna Caroli, Serena Capelli - Dipartimento di Bioingegneria

Editing Raffaella Gatta - Content Manager

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