ultimo aggiornamento:
April 28, 2020

Covid-19: le acque reflue sono indicatori di diffusione

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Possono le acque reflue, cioè le acque di scarico, dire qualcosa sulla presenza del virus SARS-CoV-2? A quanto pare si.

Acque reflue: perché si studiano

Come spiega Sara Castiglioni, capo dell'Unità di Biomarkers Ambientali - Laboratorio di Tossicologia della Nutrizione, l’Istituto ha messo a punto già nel 2005 una metodologia chiamata "epidemiologia delle acque reflue". Si tratta di un metodo che attraverso l’analisi di campioni di acqua raccolti all’ingresso dei collettori fognari è in grado di rilevare la presenza di determinate sostanze. I reflui urbani, infatti, raccolgono i residui metabolici umani (ovvero i prodotti di scarto delle varie trasformazioni metaboliche che avvengono all’interno del corpo umano) dell'intera popolazione collegata a un depuratore cittadino.

Nel corso degli anni questa metodologia ha permesso di valutare il consumo di droghe d'abuso nella popolazione a partire dall'analisi chimica di sostanze organiche di scarto presenti nelle urine. Questo metodo è ormai applicato a livello mondiale in un monitoraggio annuale. In Europa l’Istituto lavora in collaborazione con l'European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction (EMCDDA). I risultati sono pubblici e possono essere consultati on line.

Questi studi sono coordinati dal network europeo SCORE, nato nel 2010 per ottimizzare la metodologia, sviluppare un protocollo di “best practice” ed istituire una rete di monitoraggio. In questo momento Sara Castiglioni è coordinatrice di questo network. La metodologia è poi stata applicata dall’Istituto per valutare il consumo di altre sostanze come: alcool, nicotina, caffeina e farmaci e per valutare l'esposizione della popolazione a contaminanti alimentari come pesticidi e micotossine. Ora il gruppo di ricercatori sta lavorando a nuove applicazioni per studiare lo stato di salute della popolazione, in particolare la presenza di geni che causano la resistenza agli antibiotici e la presenza di virus.

Da qui è partito il progetto sul SARS-CoV-2, in collaborazione con il dipartimento di Scienze biomediche della Salute dell’Università Statale di Milano.

SARS-CoV-2 e l’analisi delle acque reflue

SARS-CoV-2 e l’analisi delle acque reflue

Il progetto che ricerca il virus nelle acque “nere” parte dall’evidenza che il SARS-CoV-2 viene effettivamente eliminato attraverso le feci. Per questo si è deciso di costruire una rete di sorveglianza attiva non solo su Milano ma in tutta la Lombardia, raccogliendo campioni di acque reflue in varie città. Lo studio è partito un mese fa da Milano dove sono stati effettuati dei campionamenti, una volta alla settimana, da due depuratori che coprono il 90% della città. Sono in corso anche in altre 9 città della regione, incluse quelle coinvolte maggiormente dall’epidemia come Bergamo, Brescia, Cremona e Lodi.

Il metodo è rapido ed economico ed è capace di rilevare la presenza del SARS-CoV-2 nelle acque reflue urbane. Le analisi dei campioni entreranno nel vivo da maggio. I risultati sono importanti per la possibilità di valutare:

  • la reale dimensione dell'epidemia (tenendo conto dei pazienti sintomatici ed asintomatici)
  • l'andamento dell'epidemia nel tempo
  • la ricomparsa nei prossimi mesi.

L’intento è di proseguire nel tempo così da verificare la presenza non solo del coronavirus ma anche di tutti i farmaci, sperimentali e non, utilizzati nella terapia del Covid-19.

E’ comunque importante sottolineare che la presenza di materiale genetico del virus nelle acque reflue non equivale al rischio di infettarsi: il solo RNA virale, e cioè residui di filamento del suo materiale genetico, non conferisce al virus la sua capacità infettante, poiché le altri parti virali non sono più presenti. Inoltre, i processi di trattamento delle acque sono comunque in grado di inattivarlo.

Lo stesso vale per l'acqua potabile: improbabile che ci si possa infettare bevendo l'acqua del rubinetto. Anche l’Istituto Superiore di Sanità si è espresso a riguardo (leggi qui).



Parlando di acque nere, sorge spontanea una domanda.

In vista del periodo estivo, c’è il rischio che il coronavirus riesca a persistere nell’acqua?

covid-19 e acqua di mare

Il CDC (Center for desease and prevention), in una recente pubblicazione, non riporta evidenze sul fatto che il virus del Covid-19 possa diffondersi attraverso l'acqua delle piscine, delle vasche calde, delle stazioni termali o dei parchi acquatici. Il corretto funzionamento, la manutenzione (compresa la disinfezione con cloro e bromo) e l’igienizzazione degli impianti dovrebbero inattivare il virus nell'acqua.

Il rischio di contagio è trascurabile e non deriva tanto dalla trasmissione attraverso l'acqua, quanto da eventuali contatti ravvicinati in spazi comuni (spogliatoi, docce, etc).

Rispetto alla persistenza nell’acqua di mare, invece non ci sono studi specifici su SARS-CoV-2 al momento. Tuttavia le informazioni che derivano da altri coronavirus, studiati in precedenza, indicano una bassa persistenza.

Per questo oggi gli esperti ritengono improbabili eventuali rischi dovuti alla persistenza di SARS-CoV-2 nell’acqua di mare, vista la sua elevata somiglianza ai virus già noti.

E', comunque, possibile che prima dell'estate vengano acquisite ulteriori informazioni su questo nuovo coronavirus, che consentiranno di valutare il rischio in modo più approfondito.

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Sara Castiglioni, Unità di Biomarkers Ambientali - Laboratorio di Tossicologia della Nutrizione

Antonio Clavenna, Laboratorio per la Salute Materno Infantile

Editing Raffaella Gatta

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