La malattia di Alzheimer (AD) è la forma più comune di demenza, una malattia neurodegenerativa che uccide progressivamente le cellule nervose, soprattutto quelle nelle aree del cervello che regolano i processi di apprendimento e memoria.
Il sintomo principale dei pazienti colpiti da questa malattia è inizialmente la perdita della memoria a breve termine.
La progressione della malattia può avere tempi molto diversi, rendendo il paziente sempre meno capace di svolgere anche le più semplici azioni quotidiane, privandolo della sua indipendenza, fino a non riconoscere più i propri famigliari.
Se si guardasse nel cervello di una persona con l’Alzheimer, si vedrebbero neuroni sofferenti circondati da matasse di una proteina dannosa, la beta-amiloide, accerchiate da cellule infiammatorie che diventano anch’esse pericolose. Il cervello viene danneggiato a diversi livelli: oltre alla degenerazione delle cellule nervose, si hanno anche danni ai vasi sanguigni e uno stato di infiammazione cerebrale persistente. La sua attività comincia così a diminuire: i neuroni non riescono a comunicare in modo corretto e a trasmettersi le informazioni utili per ricordare anche solo i gesti dell’attimo prima e fatica a formare anche semplici ricordi, per poi lentamente dimenticare anche quelli più lontani, proprio a causa della degenerazione dei neuroni.
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) i casi di demenza nel mondo sono oltre 55 milioni e si stima che, per via dell’aumento progressivo dell’età media della popolazione, questo numero sarà destinato a crescere, raggiungendo i 78 milioni entro il 2030. Di tutti i casi il 60-80% è rappresentato dalla malattia di Alzheimer. L'OMS stima che la malattia di Alzheimer e le altre demenze rappresentano la settima causa di morte nel mondo. In Europa si stima che la demenza di Alzheimer rappresenta il 54% di tutte le demenze con una prevalenza nella popolazione ultra sessantacinquenne del 4,4%.
In Italia, secondo le stime fornite dall’Osservatorio Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità, circa 1,2 milioni di persone soffrono di demenza, di cui il 50-60% (600 mila persone), sono malati di Alzheimer e circa 900.000 mostrano un disturbo neurocognitivo minore (Mild Cognitive Impairment) che potrebbe convertire ad Alzheimer conclamato. Inoltre, sono circa 3 milioni le persone direttamente o indirettamente coinvolte (parenti, assistenti sanitari, medici).
È importante sottolineare che il sesso femminile rappresenta un fattore di rischio, infatti tra i casi di Alzheimer la più alta percentuale è rappresentata da donne, in un rapporto di 1:2.
Si stima, infatti, che nel mondo 11.4 milioni di malati di Alzheimer sono uomini, ma 21 milioni sono donne. Questa differenza non ha ancora una vera spiegazione, ma apparentemente il decorso della malattia è più veloce al manifestarsi dei primi sintomi e il quadro patologico è più severo, infatti esse presentano livelli più alti delle proteine responsabili della malattia e una maggiore atrofia del cervello.
In un recente rapporto pubblicato dalla rivista Alzheimer & Dementia, è stato stimato che il numero globale di persone in fase prodromica (ossia persone che manifestano sintomi iniziali e lievi che precedono lo sviluppo della malattia) è vicino ai 69 milioni: un'emergenza con un enorme impatto socio-economico.
La malattia di Alzheimer si distingue in:
Il processo neurodegenerativo alla base della malattia è complesso. I depositi nel cervello di aggregati di proteina beta-amiloide (Aβ), sono il fenomeno patologico più precoce. Ci sono diversi tipi di aggregati che si formano nel cervello e che si distinguono in base alla loro dimensione e complessità strutturale: da piccoli aggregati (oligomeri) alle diffuse “placche senili” tipiche di questa malattia. Diversi studi, compresi quelli svolti nei laboratori del Mario Negri, hanno messo in evidenza come i piccoli aggregati possano essere responsabili delle disfunzioni neuronali alla base dei disturbi cognitivi che caratterizzano la malattia. Oltre ai depositi di Aβ, un’altra lesione tipica della malattia di Alzheimer è la formazione all’interno dei neuroni di “grovigli neurofibrillari” composti da aggregati di un’altra proteina, chiamata proteina Tau. Oltre ai neuroni, lo scenario che porta alla manifestazione di questa patologia vede coinvolte anche altre cellule presenti nel cervello. In particolare, le cellule gliali che, attivate dagli aggregati della proteina β amiloide o da altri elementi, rilasciano fattori tossici, i quali innescano, a loro volta, un processo neuroinfiammatorio cronico che porta a morte dei neuroni. Un circolo vizioso, che si auto-sostiene ed è molto difficile da arrestare.
Le fasi della malattia di Alzheimer sono essenzialmente tre, contraddistinte dal grado di declino cognitivo che da lieve diventa moderato e infine molto grave nelle fasi tardive della malattia. Inizialmente, quindi, è proprio l’insorgere di sintomi quali la disattenzione, la perdita della memoria degli eventi più recenti, le difficolta di linguaggio ad allarmare sulla possibile presenza della malattia.
Ma vediamo nel dettaglio come si distinguono le tre principali fasi sintomatiche:
1. Stadio iniziale:
2. Stadio intermedio:
3. Stadio avanzato:
Ogni individuo può manifestare questi sintomi in modo diverso, ma la progressione tende ad aggravarsi nel tempo. Una diagnosi precoce è fondamentale per gestire meglio la malattia.
Diagnosticare la malattia di Alzheimer, però, non è semplice. Anche se nel corso del tempo lo sviluppo di indagini neuropsicologiche e l’utilizzo di strumentazioni tecnologicamente avanzate hanno consentito di riconoscere la malattia di Alzheimer rispetto ad altri tipi di demenza, la diagnosi definitiva viene fatta solo post-mortem con l’esame autoptico del cervello, quando si conferma la presenza delle placche senili di beta-amiloide e dei grovigli neurofibrillari ricchi di proteina Tau.
Purtroppo, è molto difficile riconoscere la malattia nelle sue prime fasi, perché si ritiene che i neuroni inizino a danneggiarsi molti anni prima rispetto a quando si manifestano i primi sintomi cognitivi visibili. Questa condizione rende difficile riuscire a fermare il processo patologico e ripristinare le funzioni cerebrali, e potrebbe spiegare i numerosi fallimenti accumulati negli anni con le terapie principalmente dirette contro la beta-amiloide, ma anche con altri meccanismi d’azione.
Ad oggi i pazienti ricevono solo cure sintomatiche che alleviano i sintomi, ma non arrestano il processo patologico, purtroppo.
I malati di Alzheimer hanno un’aspettativa di vita che va dai 6 ai 10 anni dall’inizio dei primi sintomi, un periodo però molto variabile e legato anche al grado di assistenza. La morte avviene principalmente per l’insorgenza di broncopolmoniti dovute ad un indebolimento delle difese immunitarie e insufficienza respiratoria, anche se può essere dovuta a complicazioni legate, ad esempio, alla rottura del femore o alle piaghe da decubito per l’eccessivo allettamento.
I cambiamenti nel cervello cominciano molti anni prima che compaiano i primi sintomi della malattia, si parla addirittura di 15-20 anni. Questa lunga finestra temporale offre grandi opportunità di intervento per prevenire o ritardare la perdita di memoria e altri sintomi di demenza, e si stanno conducendo molte ricerche per riuscire a riconoscerla.
Sebbene non ci siano ancora prove definitive su come prevenire la malattia, i ricercatori hanno identificato strategie promettenti e stanno approfondendo ciò che potrebbe — e ciò che potrebbe non — funzionare:
Anche se nessuno di questi approcci garantisce la prevenzione dell'Alzheimer o dell'MCI, adottare un insieme di abitudini salutari può ridurre significativamente il rischio e migliorare la qualità della vita complessiva.
Una delle più grandi sfide con l’Alzheimer è la capacità di trovare una cura in grado di fermare la malattia. I farmaci in uso, alleviano solo i sintomi. Per molti anni sono stati testati anticorpi monoclonali diretti contro la proteina beta-amiloide, che rappresentano una promettente classe di terapie per il trattamento dell'Alzheimer, ma purtroppo con scarsi successi. Finalmente, dopo tanti fallimenti, il 14 Novembre 2024, l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha espresso parere positivo sull’immissione in commercio di Leqembi, che era già stato autorizzato tra l’altro negli Stati Uniti, in Giappone, Cina, Sud Corea e Inghliterra. Il principio attivo di Leqmbi è il lecanemab, un anticorpo monoclonale diretto contro la proteina beta-amiloide, il cui accumulo e deposito è secondo le ricerche attuali tra le cause della malattia. Questo anticorpo verrà utilizzato per il trattamento dell'Alzheimer in fase precoce, ossia in una fase in cui la compromissione cognitiva e lo stadio di demenza sono lievi, e in soggetti che hanno solo una copia dell’allele della apolipoproteina (APoE)4, perché questi soggetti hanno meno probabilità di sviluppare effetti collaterali tra cui gonfiore cerebrale e micro-emorragie. Il farmaco mira a rallentare la malattia, ma non permetterà di curarla.
Come funziona lecanemab: l’anticorpo si lega alla beta-amiloide e aiuta il sistema immunitario del corpo a rimuoverla. In questo modo, riduce il suo l'accumulo nel cervello.
Un altro anticorpo della stessa classe farmacologica del lecanemab contro la beta-amiloide è il donanemap, approvato negli Stati Uniti il 10 giugno 2024 ma tutt’ora in fase di valutazione dall’EMA.
Il Dipartimento di Neuroscienze e il Dipartimento di Biochimica e Farmacologia Molecolare sono impegnati da anni nello studio della malattia di Alzheimer.
I ricercatori dell'Unità di Neurobiologia del Disturbo Cognitivo nelle Malattie Neurodegenerative stanno studiando diverse potenziali strategie terapeutiche per individuare terapie combinate che colpiscano più bersagli contemporaneamente, (strategia multi-bersaglio), come la proteina β amiloide o altri fattori legati alla neuroinfiammazione, ormai considerata come una possibile causa primaria. I potenziali bersagli sono:
- gli inibitori della calcineurina, una proteina che sembra essere responsabile della malattia. L’obiettivo è colpirla per evitare la progressione della patologia;
- la doxiciclina, un antibiotico capace di ridurre l’infiammazione e impedire agli aggregati della proteina beta-amiloide di danneggiare i neuroni e la memoria;
- il secretoma, cioè l'insieme di fattori protettivi rilasciati dalle cellule staminali che, come osservato nei modelli sperimentali, riparano il cervello a più livelli, riducendo gli aggregati di beta-amiloide e l’infiammazione, e proteggendo i neuroni, che riescono sopravvivere più a lungo. I risultati di questo studio pre-clinico sono stati pubblicati nel 2021 su Cell Death and Differentiation.
Un recente studio pubblicato su Molecular Psychiatry, condotto in collaborazione con l'Istituto Besta, invece, ha presentato un possibile approccio terapeutico, al momento ancora in preclinica, da utilizzare in fase precoce.
Nell'Aprile 2021, con la collaborazione di altri 7 gruppi europei, la Dr.ssa Claudia Balducci (Unità di Neurobiologia del Disturbo Cognitivo nelle Malattie Neurodegenerative), insieme al Dr. Edoardo Micotti (Dipartimento di Neuroscienze) e al Dr. Marco Gobbi (Laboratorio di Farmacodinamica e Farmacocinetica del Dipartimento di Biochimica e Farmacologia Molecolare), viene coinvolta nel progetto NECTAR, progetto finanziato dalla Comunità Europea tramite il bando H2020-FETOPEN-2018-2020, coordinato dalla Dr.ssa Nicoletta Protti dell’Università di Pavia.
NECTAR, ovvero NEutron Capture-enhanced Treatment of neurotoxic Amyloid aggRegates - trattamento di aggregati neurotossici di amiloide, potenziato dalla cattura neutronica, è un progetto riguardante la terapia a cattura neutronica, che rientra nelle radioterapie innovative o adroterapie (le cui forme ad oggi più diffuse sono la proton-terapia e la radioterapia con ioni di carbonio). La forma più semplice e originaria di questi tipi di trattamento, ossia la radioterapia con raggi X, si è già dimostrata efficace nella cura delle amiloidosi delle vie aeree (tracheobronchiali). Questo risultato ha incoraggiato i ricercatori ad estendere lo spettro di radiazioni (appunto dai raggi X all’adroterapia a cattura neutronica) su una forma diversa di amiloidosi nel cervello, come quella tipica della malattia di Alzheimer. NECTAR è, quindi, il primo progetto di ricerca su scala europea volto a studiare l’efficacia di una radioterapia innovativa nel trattamento di questa malattia.
NECTAR è un progetto multidisciplinare che unisce competenze di fisica, ingegneria, chimica e biologia per provare a colpire e neutralizzare con un fascio di neutroni gli aggregati neurotossici di Aβ che inducono la malattia, e arrestarla.
Con la chimica svilupperemo una molecola in grado di entrare nel cervello e legare selettivamente le placche. A questa molecola saranno legati degli atomi naturali stabili che cattureranno, solo nelle placche, il fascio di neutroni inviato al cervello, senza colpire altre zone. Il raggio rompendo gli atomi scatenerà una reazione capace di distruggere le placche e stimolare una risposta delle cellule immunitarie del cervello. Queste ultime dovrebbero eliminare definitivamente i frammenti prodotti dalla reazione.
Lo scopo finale del progetto è dimostrare l’efficacia di questa terapia nell’ eliminare/ridurre/neutralizzare gli elementi neurotossici e di fermare, o quanto meno rallentare, la malattia, inizialmente in un contesto preclinico. Saranno valutati eventuali effetti collaterali, condizione fondamentale nella prospettiva di passare da modelli di laboratorio all'uomo (ricerca traslazionale). A tale scopo, con il contributo di fisici e ingegneri presenti nel consorzio, sarà identificato il fascio di neutroni più efficace, e sicuro sia per i pazienti che per gli operatori.
Il team coinvolto nel progetto si compone di una squadra di giovani e giovanissimi ricercatori, a partire dalla responsabile del progetto, e di studenti altamente motivati a garantire il successo di NECTAR che vede coinvolti: Il Dipartimento di Fisica dell’Università di Pavia, capofila del progetto, coadiuvato da tre partner italiani tra cui l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano (Dipartimento di Neuroscienze & Dipartimento di Biochimica e Farmacologia Molecolare), il Dipartimento di Chimica e quello di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, e la start-up Raylab in collaborazione con il Laboratorio di Misure Nucleari del Politecnico di Milano. Completano la squadra quattro realtà straniere: il Laboratorio di Dosimetria delle Radiazioni Ionizzanti dell’Istituto di Radioprotezione e di Sicurezza Nucleare di Parigi, il Dipartimento di Biologia Molecolare e l’Istituto Wenner-Gren dell’Università di Stoccolma, il Centro geriatrico Haus Berge dell’ospedale universitario di Essen (Germania) e la Clinica di Radioterapia e Radiooncologia dell’ospedale universitario di Jena (Germania).
I dettagli e le novità relative al progetto NECTAR si possono trovare qui.
Nell’aprile del 2024 il Ministero della Salute nell’ambito di un bando PNRR ha finanziato al gruppo coordinato dal Dr. Gianluigi Forloni del nostro Istituto un progetto di ricerca per la cura della Malattia di Alzheimer, lo studio proposto è risultato al primo posto su quasi trecento, nella graduatoria di valutazione espressa dagli esperti del Ministero.
Il progetto propone un approccio innovativo alla cura della Malattia di Alzheimer identificando come target terapeutico la proteina calcineurina, espressa dagli astrociti, le cellule non nervose più abbondanti a livello cerebrale. Gli astrociti hanno un compito di supporto strutturale e di difesa delle cellule nervose, hanno quindi un ruolo chiave nel garantire il corretto funzionamento del sistema nervoso centrale e nel mantenere l'omeostasi del cervello.
Nella malattia di Alzheimer, l’attivazione degli astrociti svolge un ruolo protettivo inizialmente, ma con il progredire della malattia il persistere dell’attivazione innesca meccanismi che provocano danno alle cellule nervose, tra questi il rilascio di proteine infiammatorie: le citochine. L’aumento dell’attività della calcineurina è ben documentato negli astrociti dei pazienti e contribuisce alla sovra-produzione di citochine. Questa condizione perpetuata nel tempo, conduce inevitabilmente alla progressiva morte dei neuroni, ed è anche responsabile dei danni alle sinapsi e dei difetti di apprendimento e memoria tipici della malattia.
Nei nostri laboratori, attraverso una collaborazione con il Prof. Lim dell’Università del Piemonte, abbiamo dimostrato che eliminando la calcineurina specificamente dagli astrociti preveniamo lo sviluppo della malattia in modelli preclinici di malattia. Questo studio è stato recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Glia.
Grazie al progetto PNRR “Inibizione della calcineurina astrocitaria tramite un approccio di nanomedicina cellula-specifico: una nuova strategia terapeutica per arrestare la progressione della malattia di Alzheimer”, cercheremo di approfondire esattamente il ruolo della calcineurina nella malattia di Alzheimer e di capire perché la sua assenza ne rallenti/impedisca lo sviluppo.
Lo scopo principale del progetto, in una prospettiva di applicazione clinica, sarà però quello di inibire la calcineurina sfruttando una tecnologia molto innovativa basata sulla nanomedicina. Grazie, infatti, ad una collaborazione con il Prof. Filippo Rossi, del Politecnico di Milano, e il Dr Pietro Veglianese dell’Istituto Mario Negri, utilizzeremo nanoparticelle appositamente ingegnerizzate per portare un farmaco (tacrolimus) – che inibisce l’attività della calcineurina – direttamente e specificamente all’interno degli astrociti, sia in modelli murini di malattia, si in cellule umane derivate dai pazienti. Il tacrolimus è un farmaco già ampiamente utilizzato in clinica nei soggetti che hanno subìto un trapianto e che sembra ridurre il rischio di Alzheimer. Se riusciremo ad interrompere il circolo vizioso della malattia agendo solo su una delle cellule maggiormente coinvolte, gli astrociti, avremmo raggiunto un grande traguardo a livello terapeutico.
Il progetto, coordinato dal Dr Forloni e dalla Dr.ssa Claudia Balducci dell’Istituto Mario Negri di Milano, vedrà la collaborazione di altri tre gruppi di eccellenza tra cui il gruppo guidato dal Prof. Dmitry Lim dell’Università del Piemonte, il gruppo del Prof. Filippo Caraci dell’Associazione Oasi Maria SS dell’Università Di Catania, e il gruppo coordinato dalla Prof.ssa Emanuela Esposito dell’Azienda Ospedaliera Universitaria G. Martino di Messina.
Claudia Balducci - Unità di Neurobiologia del disturbo cognitivo nelle malattie neurodegenerative - Laboratorio di Biologia delle Malattie Neurodegenerative - Dipartimento di Neuroscienze