Data prima pubblicazione
19/9/2022
October 2, 2025

Malattia di Alzheimer: cos'è, sintomi, diagnosi e nuove terapie

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October 2, 2025

Malattia di Alzheimer: cos'è, sintomi, diagnosi e nuove terapie

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La malattia di Alzheimer è una patologia degenerativa caratterizzata da perdita di memoria e declino cognitivo. Scopri sintomi, fattori di rischio e nuove prospettive di cura.

Indice

Esserci ancora senza esserci più. Perdere pezzi di memoria, prima i ricordi più vicini, poi quelli più lontani. Il morbo di Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che rappresenta una sfida che coinvolge milioni di persone e intere famiglie in tutto il mondo. In questo articolo esploriamo i sintomi, i principali fattori di rischio e le strategie più attuali per affrontare e convivere con questa demenza, con uno sguardo alle ultime frontiere della ricerca scientifica.

Malattia di Alzheimer: che cos'è il morbo di Alzheimer?

La malattia di Alzheimer (AD) è la forma più comune di demenza, una malattia neurodegenerativa che uccide progressivamente le cellule nervose, soprattutto quelle nelle aree del cervello che regolano i processi di apprendimento e memoria.

Il sintomo principale dei pazienti colpiti da questa malattia è inizialmente la perdita della memoria a breve termine.

La progressione della malattia può avere tempi molto diversi, rendendo il paziente sempre meno capace di svolgere anche le più semplici azioni quotidiane, privandolo della sua indipendenza, fino a non riconoscere più i propri famigliari.

Se si guardasse nel cervello di una persona con l’Alzheimer, si vedrebbero neuroni sofferenti circondati da matasse di una proteina dannosa, la beta-amiloide, accerchiate da cellule infiammatorie che diventano anch’esse pericolose. Il cervello viene danneggiato a diversi livelli: oltre alla degenerazione delle cellule nervose, si hanno anche danni ai vasi sanguigni e uno stato di infiammazione cerebrale persistente. La sua attività comincia così a diminuire: i neuroni non riescono a comunicare in modo corretto e a trasmettersi le informazioni utili per ricordare anche solo i gesti dell’attimo prima e fatica a formare anche semplici ricordi, per poi lentamente dimenticare anche quelli più lontani, proprio a causa della degenerazione dei neuroni.

Epidemiologia del morbo di Alzheimer: i numeri aggiornati

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) i casi di demenza nel mondo sono oltre 57 milioni e si stima che, per via dell’aumento progressivo dell’età media della popolazione, questo numero sarà destinato a crescere, raggiungendo i 78 milioni entro il 2030. Di tutti i casi il 60-80% è rappresentato dalla malattia di Alzheimer. L'OMS stima che la malattia di Alzheimer e le altre demenze rappresentano la settima causa di morte nel mondo. In Europa si stima che la demenza di Alzheimer rappresenta il 54% di tutte le demenze con una prevalenza nella popolazione ultra sessantacinquenne superiore al 6%.

In Italia, secondo le stime fornite dall’Osservatorio Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità, circa 1,2 milioni di persone soffrono di demenza, di cui il 50-60% (circa 600 mila persone), sono malati di Alzheimer e circa 900.000 mostrano un disturbo neurocognitivo minore (Mild Cognitive Impairment) che potrebbe convertire ad Alzheimer conclamato. Inoltre, sono circa 4 milioni le persone direttamente o indirettamente coinvolte (parenti, assistenti sanitari, medici).

È importante sottolineare che il sesso femminile rappresenta un fattore di rischio, infatti tra i casi di Alzheimer la più alta percentuale è rappresentata da donne, in un rapporto di 1:2.

Si stima, infatti, che nel mondo 11.4 milioni di malati di Alzheimer sono uomini, ma 21 milioni sono donne. Questa differenza non ha ancora una vera spiegazione, ma apparentemente il decorso della malattia è più veloce al manifestarsi dei primi sintomi e il quadro patologico è più severo, infatti esse presentano livelli più alti delle proteine responsabili della malattia e una maggiore atrofia del cervello.

In un recente rapporto pubblicato dalla rivista Alzheimer & Dementia, è stato stimato che il numero globale di persone in fase prodromica (ossia persone che manifestano sintomi iniziali e lievi che precedono lo sviluppo della malattia) è vicino ai 69 milioni: un'emergenza con un enorme impatto socio-economico.

Quali sono le principali cause della malattia di Alzheimer?

La malattia di Alzheimer si distingue in:

  • forma familiare, che dipende dalla presenza di mutazioni genetiche. Rappresenta circa il 10% dei casi e generalmente si manifesta prima dei 60-65 anni di età;
  • forma sporadica, responsabile del restante 90% dei casi, non è associata a una causa specifica riconosciuta, anche se l’età resta il principale fattore di rischio. Si manifesta dopo i 65 anni di età e, sebbene non sia geneticamente indotta, è stata rilevata una predisposizione familiare.

Il processo neurodegenerativo alla base della malattia è complesso. I depositi nel cervello di aggregati di proteina beta-amiloide (), sono il fenomeno patologico più precoce. Ci sono diversi tipi di aggregati che si formano nel cervello e che si distinguono in base alla loro dimensione e complessità strutturale: da piccoli aggregati (oligomeri) alle diffuse “placche senili” tipiche di questa malattia. Diversi studi, compresi quelli svolti nei laboratori del Mario Negri, hanno messo in evidenza come i piccoli aggregati possano essere responsabili delle disfunzioni neuronali alla base dei disturbi cognitivi che caratterizzano la malattia. Tuttavia, recenti evidenze hanno messo in dubbio che la deposizione di Aβ sia sempre il primo evento nella forma sporadica: l’amiloide è considerata una componente centrale, ma non sufficiente da sola a spiegare l’intero processo neurodegenerativo.

Oltre ai depositi di Aβ, un’altra lesione tipica della malattia di Alzheimer è la formazione all’interno dei neuroni di “grovigli neurofibrillari” composti da aggregati di un’altra proteina, chiamata proteina Tau. Questi aggregati di Tau si diffondono lungo i circuiti cerebrali secondo un meccanismo di tipo “prion-like”, e la loro progressione è strettamente correlata al peggioramento clinico della malattia.

Oltre ai neuroni, lo scenario che porta alla manifestazione di questa patologia vede coinvolte anche altre cellule presenti nel cervello. In particolare, le cellule gliali che, attivate dagli aggregati della proteina β amiloide o da altri elementi, rilasciano fattori tossici, i quali innescano, a loro volta, un processo neuroinfiammatorio cronico che porta a morte dei neuroni. Un circolo vizioso, che si auto-sostiene ed è molto difficile da arrestare.

La neuroinfiammazione cronica è oggi riconosciuta come un meccanismo chiave della malattia: le microglia e gli astrociti, se iperattivati, possono peggiorare la degenerazione rilasciando citochine proinfiammatorie e riducendo la capacità del cervello di eliminare i depositi tossici. In particolare, la presenza del gene APOE ε4 sembra aumentare l’infiammazione cerebrale, aggravando la perdita sinaptica.

Un ruolo importante è giocato anche dalla disfunzione mitocondriale, dallo stress ossidativo e da alterazioni nel metabolismo energetico dei neuroni, che rendono il cervello più vulnerabile. Inoltre, è stata osservata una riduzione dell’efficienza dei sistemi di degradazione e rimozione delle proteine malripiegate, come il sistema autofagico e il proteasoma, che porta all’accumulo progressivo di aggregati tossici.

Infine, numerosi fattori vascolari e metabolici (ipertensione, diabete, obesità, dislipidemie) e abitudini di vita scorrette (dieta povera, sedentarietà, isolamento sociale) sono considerati cofattori importanti nello sviluppo della malattia.

Alcune ricerche recenti stanno anche esplorando l’ipotesi infettiva, secondo cui alcuni agenti patogeni (come virus o batteri) potrebbero scatenare una risposta infiammatoria cronica che favorisce l’insorgenza dell’Alzheimer, ma questa teoria è ancora in fase sperimentale.

I sintomi della malattia di Alzheimer: i segnali a cui prestare attenzione

Le fasi della malattia di Alzheimer sono essenzialmente tre, contraddistinte dal grado di declino cognitivo che da lieve diventa moderato e infine molto grave nelle fasi tardive della malattia. Inizialmente, quindi, è proprio l’insorgere di sintomi quali la disattenzione, la perdita della memoria degli eventi più recenti, le difficolta di linguaggio ad allarmare sulla possibile presenza della malattia.

Ma vediamo nel dettaglio come si distinguono le tre principali fasi sintomatiche:

1. Stadio iniziale:

  • Perdita di memoria a breve termine: Difficoltà nel ricordare eventi recenti o conversazioni
  • Disorientamento: Problemi nel riconoscere luoghi familiari o nel gestire il tempo
  • Difficoltà linguistiche: Problemi nel trovare le parole giuste o nel seguire un discorso
  • Cambiamenti di personalità: Irritabilità, apatia o lieve depressione

2. Stadio intermedio:

  • Compromissione della memoria: Dimenticanza di informazioni importanti, come nomi di familiari
  • Difficoltà cognitive: Problemi nel risolvere problemi o nel prendere decisioni semplici
  • Disorientamento marcato: Non riconoscere ambienti familiari o persone care
  • Comportamenti anomali: Vagabondaggio, ripetizione di azioni o domande, ansia e agitazione

3. Stadio avanzato:

  • Grave perdita di memoria: Incapacità di riconoscere i propri cari o di ricordare informazioni personali.
  • Perdita delle abilità quotidiane: Difficoltà nel mangiare, vestirsi o lavarsi senza assistenza.
  • Problemi di linguaggio: Comunicazione molto limitata o assente.
  • Cambiamenti fisici: Difficoltà motorie, perdita di peso e aumento della fragilità fisica.

Ogni individuo può manifestare questi sintomi in modo diverso, ma la progressione tende ad aggravarsi nel tempo. In media, la durata della malattia dalla diagnosi varia tra gli 8 e i 10 anni, ma può andare da 3 a oltre 20 anni.  Una diagnosi precoce è fondamentale per ritardare la progressione dei sintomi, impostare un piano assistenziale adeguato e accedere a eventuali terapie farmacologiche o sperimentali.

Diagnosi dell'Alzheimer: ecco come avviene

Diagnosticare la malattia di Alzheimer, però, non è semplice. Anche se nel corso del tempo lo sviluppo di indagini neuropsicologiche e l’utilizzo di strumentazioni tecnologicamente avanzate hanno consentito di riconoscere la malattia di Alzheimer rispetto ad altri tipi di demenza, la diagnosi definitiva viene fatta solo post-mortem con l’esame autoptico del cervello, quando si conferma la presenza delle placche senili di beta-amiloide e dei grovigli neurofibrillari ricchi di proteina Tau.

Purtroppo, è molto difficile riconoscere la malattia nelle sue prime fasi, perché si ritiene che i neuroni inizino a danneggiarsi molti anni prima rispetto a quando si manifestano i primi sintomi cognitivi visibili. Questa condizione rende difficile riuscire a fermare il processo patologico e ripristinare le funzioni cerebrali, e potrebbe spiegare i numerosi fallimenti accumulati negli anni con le terapie principalmente dirette contro la beta-amiloide, ma anche con altri meccanismi d’azione.

Ad oggi i pazienti ricevono solo cure sintomatiche che alleviano i sintomi, ma non arrestano il processo patologico, purtroppo.

Si effettua un test del sangue per la diagnosi dell’Alzheimer?

Nel maggio 2025 la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato il primo test del sangue in vitro per individuare l'Alzheimer. Il test, chiamato Lumipulse G pTau 217/β-Amyloid 1-42 Plasma Ratio, è indicato per adulti dai 55 anni in su che mostrano già segni di declino cognitivo compatibili con la malattia.

Si tratta di un esame che consente di misurare nel sangue i livelli di due biomarcatori fondamentali della malattia di Alzheimer – le proteine amiloide e tau – e di determinarne il rapporto. Tale rapporto viene poi comparato con la presenza o l'assenza delle placche amiloidi cerebrali, caratteristiche tipiche della patologia. In questo modo si ridurrebbe la necessità di ricorrere a esami più invasivi come la PET cerebrale, procedura lunga e costosa che comporta l’esposizione a radiazioni, o l’analisi del liquido cerebrospinale (CSF) tramite puntura lombare.

L’approvazione dell’esame ematico si basa su uno studio clinico condotto su 499 campioni di plasma prelevati da adulti con declino cognitivo. I risultati ottenuti dal test ematico sono stati confrontati con esami PET e analisi del liquido cerebrospinale, mostrando un'elevata precisione diagnostica nell’individuare persone affette o meno da Alzheimer: un valore predittivo positivo pari al 91,7% e un valore predittivo negativo del 97,3%. Meno del 20% dei test ha restituito risultati incerti.

La FDA sottolinea che il test non dovrebbe essere utilizzato, tuttavia, come unico strumento per diagnosticare l'Alzheimer, ma valutato assieme al quadro clinico complessivo del paziente.

Prevenzione della malattia di Alzheimer: come effettuarla

I cambiamenti nel cervello cominciano molti anni prima che compaiano i primi sintomi della malattia, si parla addirittura di 15-20 anni. Questa lunga finestra temporale offre grandi opportunità di intervento per prevenire o ritardare la perdita di memoria e altri sintomi di demenza, e si stanno conducendo molte ricerche per riuscire a riconoscerla.

Sebbene non ci siano ancora prove definitive su come prevenire la malattia, le più recenti evidenze (Lancet Commission 2024) indicano che fino al 45% dei casi potrebbe essere evitato o posticipato intervenendo su almeno 13 fattori di rischio modificabili:

  1. Gestione della pressione sanguigna: Mantenere la pressione sanguigna sotto controllo, soprattutto in età adulta e avanzata, può aiutare a proteggere la salute del cervello. Studi suggeriscono che trattare l'ipertensione riduce il rischio di declino cognitivo.
  2. Aumento dell'attività fisica: L'esercizio fisico regolare favorisce una migliore circolazione sanguigna e il benessere del sistema nervoso centrale. Attività aerobiche, camminate veloci e yoga sono state associate a benefici cognitivi.
  3. Allenamento cognitivo: Mantenere il cervello attivo attraverso giochi mentali, apprendimento di nuove abilità o formazione continua può rafforzare le connessioni cerebrali.
  4. Dieta equilibrata: Diete come la dieta mediterranea, ricca di frutta, verdura, cereali integrali, pesce e olio d'oliva, sono legate a un minore rischio di declino cognitivo. Il consumo moderato di alimenti con antiossidanti (es. noci, frutti di bosco) supporta la salute cerebrale. La dieta MIND, che combina principi della dieta mediterranea e DASH, ha dimostrato di ridurre il rischio di Alzheimer fino al 30–35%. Anche micronutrienti come omega-3, vitamina D, polifenoli e vitamine del gruppo B sembrano avere un ruolo protettivo.
  5. Gestione di altre condizioni di salute: Controllare il diabete, migliorare la qualità del sonno e trattare i disturbi uditivi sono aspetti importanti della prevenzione. Il diabete non gestito è un fattore di rischio per il declino cognitivo. Ipercolesterolemia, obesità in età media, apnea notturna e ipotiroidismo sono anch'essi sotto osservazione come potenziali fattori di rischio.
  6. Riduzione dello stress e supporto sociale: Ridurre lo stress attraverso tecniche di rilassamento e mantenere relazioni sociali attive possono proteggere il cervello a lungo termine.
  7. Inquinamento atmosferico: L'esposizione prolungata a particolato fine (PM2.5) è associata a maggiore rischio di declino cognitivo.
  8. Traumi cranici: Lesioni alla testa (da incidenti o sport da contatto) aumentano il rischio di Alzheimer, soprattutto se ripetute.
  9. Scarso livello di istruzione precoce: La bassa scolarizzazione in età infantile o adolescenziale riduce la riserva cognitiva protettiva.
  10. Fumo attivo o passivo: Contribuisce al danno vascolare e all'infiammazione cerebrale.
  11. Perdita visiva non corretta: Viene associata a declino cognitivo accelerato, isolamento sociale e maggiore rischio di demenza.
  12. Colesterolo LDL alto: Il colesterolo “cattivo” non trattato è un potenziale fattore che contribuisce alla neurodegenerazione.
  13. Ipotiroidismo: può influire negativamente su attenzione, memoria e funzioni esecutive.

Anche se nessuno di questi approcci garantisce la prevenzione dell'Alzheimer o dell'MCI, adottare un insieme di abitudini salutari può ridurre significativamente il rischio e migliorare la qualità della vita complessiva.

Come curare la malattia di Alzheimer: cure e nuove terapie disponibili

La malattia di Alzheimer rappresenta una delle sfide più complesse della medicina moderna e, al momento, non esiste una cura definitiva. Tuttavia, la ricerca scientifica ha compiuto notevoli progressi negli ultimi anni, portando allo sviluppo di trattamenti farmacologici e non farmacologici che possono rallentare la progressione della malattia e migliorare la qualità della vita dei pazienti.

Alzheimer: la terapia con gli anticorpi monoclonali

Una delle sfide principali con l’Alzheimer è trovare una cura in grado di fermare la malattia. I farmaci attualmente in uso alleviano solo i sintomi, senza modificarne il decorso. Per anni sono stati testati anticorpi monoclonali diretti contro la proteina beta-amiloide, con risultati altalenanti ma promettenti.

Nel novembre 2024, il CHMP dell’EMA ha espresso parere positivo per l’autorizzazione all’immissione in commercio di Leqembi, già approvato negli Stati Uniti, Giappone, Cina, Corea del Sud e Regno Unito.
L'autorizzazione ufficiale europea è arrivata il 15 aprile 2025.

Il principio attivo, lecanemab, è un anticorpo monoclonale che si lega alla beta-amiloide aggregata e ne facilita la rimozione, riducendo l’accumulo della proteina nel cervello.

Leqembi è indicato per il trattamento della fase precoce dell’Alzheimer (compromissione cognitiva lieve o demenza lieve), in pazienti con placche amiloidi rilevate da esami specifici. Può essere somministrato solo a pazienti con zero o una copia dell’allele APOE ε4, poiché due copie aumentano il rischio di ARIA (edema cerebrale e microemorragie).

Il farmaco non cura la malattia, ma può rallentarne la progressione clinica.

Un altro anticorpo simile, donanemab, è stato approvato negli Stati Uniti nel giugno 2024 ed è in fase di valutazione da parte dell’EMA.

Terapie anti-infiammatorie e immunomodulanti

La neuroinfiammazione è oggi considerata un fattore chiave nella progressione dell’Alzheimer. Le nuove terapie puntano a modulare la risposta immunitaria del cervello, in particolare l'attività della microglia.

Tra i candidati allo studio ci sono:

  • inibitori delle chinasi infiammatorie
  • molecole che agiscono sui recettori toll-like (TLR)

Farmaci già approvati per altre patologie, come litio e minociclina, sono stati valutati per il possibile riposizionamento terapeutico, ma le evidenze attuali non sono ancora sufficienti per un loro uso clinico nell’Alzheimer.

Farmaci per il metabolismo e la funzione mitocondriale

La disfunzione mitocondriale è un elemento importante nella neurodegenerazione. Diverse ricerche stanno testando farmaci che possano migliorare la bioenergetica neuronale e proteggere i neuroni dallo stress ossidativo.

Tra questi, la metformina, nota per il trattamento del diabete di tipo 2, ha mostrato risultati promettenti in modelli animali e studi osservazionali. Sono attualmente in corso studi clinici per verificarne l’efficacia anche nell’Alzheimer precoce.

Altri composti puntano ad attivare la via del fattore Nrf2, coinvolta nei meccanismi di protezione cellulare, o a stabilizzare la funzione dei mitocondri.

Terapie combinate e medicina personalizzata

Una direzione molto promettente della ricerca è rappresentata dalle terapie combinate, che agiscono contemporaneamente su:

  • amiloide
  • Tau
  • infiammazione
  • metabolismo cerebrale

In parallelo, la medicina personalizzata sta diventando una realtà sempre più concreta. Grazie a biomarcatori (come la PET amiloide, la Tau nel liquido cerebrospinale, e il genotipo APOE), è possibile adattare i trattamenti alle caratteristiche biologiche di ogni paziente.

L’obiettivo è intervenire in fase precoce, quando i danni cerebrali non sono ancora irreversibili, modulando le terapie in modo mirato e personalizzato.

Qual è la speranza di vita di una persona con la malattia di Alzheimer?

I malati di Alzheimer hanno un’aspettativa di vita ca dai 6 ai 10 anni dall’inizio dei primi sintomi, un periodo però molto variabile e legato anche al grado di assistenza. La morte avviene principalmente per l’insorgenza di broncopolmoniti dovute ad un indebolimento delle difese immunitarie e insufficienza respiratoria, anche se può essere dovuta a complicazioni legate, ad esempio, alla rottura del femore o alle piaghe da decubito per l’eccessivo allettamento.

Perché il morbo di Alzheimer è definito come la malattia delle 4 A?

Il morbo di Alzheimer è spesso definito come la “malattia delle 4 A” perché molti dei suoi sintomi principali possono essere ricordati con quattro termini che iniziano con la lettera “A”: amnesia, afasia, aprassia e agnosia. (uchealth.org)

  • Amnesia indica la perdita di memoria, specialmente per eventi recenti.
  • Afasia è la difficoltà o incapacità di usare o comprendere il linguaggio.
  • Aprassia riguarda la perdita della capacità di eseguire gesti e movimenti volontari nonostante l’integrità dei muscoli e del linguaggio.
  • Agnosia è l’incapacità di riconoscere oggetti, persone o suoni nonostante i sensi funzionanti.

Questa classificazione permette di focalizzare in maniera semplice aspetti clinici chiave dell’Alzheimer, utili anche nella diagnosi neuropsicologica.

Qual è l'impegno del Mario Negri nella ricerca sull'Alzheimer?

Il Dipartimento di Neuroscienze e il Dipartimento di Biochimica e Farmacologia Molecolare sono impegnati da anni nello studio della malattia di Alzheimer.

I ricercatori dell'Unità di Neurobiologia del Disturbo Cognitivo nelle Malattie Neurodegenerative stanno studiando diverse potenziali strategie terapeutiche per individuare terapie combinate che colpiscano più bersagli contemporaneamente, (strategia multi-bersaglio), come la proteina β amiloide o altri fattori legati alla neuroinfiammazione, ormai considerata come una possibile causa primaria. I potenziali bersagli sono:

- gli inibitori della calcineurina, una proteina che sembra essere responsabile della malattia. L’obiettivo è colpirla per evitare la progressione della patologia;

- la doxiciclina, un antibiotico capace di ridurre l’infiammazione e impedire agli aggregati della proteina beta-amiloide di danneggiare i neuroni e la memoria;

- il secretoma, cioè l'insieme di fattori protettivi rilasciati dalle cellule staminali che, come osservato nei modelli sperimentali, riparano il cervello a più livelli, riducendo gli aggregati di beta-amiloide e l’infiammazione, e proteggendo i neuroni, che riescono sopravvivere più a lungo. I risultati di questo studio pre-clinico sono stati pubblicati nel 2021 su Cell Death and Differentiation.

Un recente studio pubblicato su Molecular Psychiatry, condotto in collaborazione con l'Istituto Besta, invece, ha presentato un possibile approccio terapeutico, al momento ancora in preclinica, da utilizzare in fase precoce.

Il progetto NECTAR per la ricerca sull'Alzheimer

Nell'Aprile 2021, con la collaborazione di altri 7 gruppi europei, la Dr.ssa Claudia Balducci (Unità di Neurobiologia del Disturbo Cognitivo nelle Malattie Neurodegenerative), insieme al Dr. Edoardo Micotti (Dipartimento di Neuroscienze) e al Dr. Marco Gobbi (Laboratorio di Farmacodinamica e Farmacocinetica del Dipartimento di Biochimica e Farmacologia Molecolare), viene coinvolta nel progetto NECTAR, progetto finanziato dalla Comunità Europea tramite il bando H2020-FETOPEN-2018-2020, coordinato dalla Dr.ssa Nicoletta Protti dell’Università di Pavia.

NECTAR, ovvero NEutron Capture-enhanced Treatment of neurotoxic Amyloid aggRegates - trattamento di aggregati neurotossici di amiloide, potenziato dalla cattura neutronica, è un progetto riguardante la terapia a cattura neutronica, che rientra nelle radioterapie innovative o adroterapie (le cui forme ad oggi più diffuse sono la proton-terapia e la radioterapia con ioni di carbonio). La forma più semplice e originaria di questi tipi di trattamento, ossia la radioterapia con raggi X, si è già dimostrata efficace nella cura delle amiloidosi delle vie aeree (tracheobronchiali). Questo risultato ha incoraggiato i ricercatori ad estendere lo spettro di radiazioni (appunto dai raggi X all’adroterapia a cattura neutronica) su una forma diversa di amiloidosi nel cervello, come quella tipica della malattia di Alzheimer. NECTAR è, quindi, il primo progetto di ricerca su scala europea volto a studiare l’efficacia di una radioterapia innovativa nel trattamento di questa malattia.

NECTAR è un progetto multidisciplinare che unisce competenze di fisica, ingegneria, chimica e biologia per provare a colpire e neutralizzare con un fascio di neutroni gli aggregati neurotossici di Aβ che inducono la malattia, e arrestarla.

Con la chimica svilupperemo una molecola in grado di entrare nel cervello e legare selettivamente le placche. A questa molecola saranno legati degli atomi naturali stabili che cattureranno, solo nelle placche, il fascio di neutroni inviato al cervello, senza colpire altre zone. Il raggio rompendo gli atomi scatenerà una reazione capace di distruggere le placche e stimolare una risposta delle cellule immunitarie del cervello. Queste ultime dovrebbero eliminare definitivamente i frammenti prodotti dalla reazione.

Lo scopo finale del progetto è dimostrare l’efficacia di questa terapia nell’ eliminare/ridurre/neutralizzare gli elementi neurotossici e di fermare, o quanto meno rallentare, la malattia, inizialmente in un contesto preclinico. Saranno valutati eventuali effetti collaterali, condizione fondamentale nella prospettiva di passare da modelli di laboratorio all'uomo (ricerca traslazionale). A tale scopo, con il contributo di fisici e ingegneri presenti nel consorzio, sarà identificato il fascio di neutroni più efficace, e sicuro sia per i pazienti che per gli operatori.

Il team coinvolto nel progetto si compone di una squadra di giovani e giovanissimi ricercatori, a partire dalla responsabile del progetto, e di studenti altamente motivati a garantire il successo di NECTAR che vede coinvolti: Il Dipartimento di Fisica dell’Università di Pavia, capofila del progetto, coadiuvato da tre partner italiani tra cui l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano (Dipartimento di Neuroscienze & Dipartimento di Biochimica e Farmacologia Molecolare), il Dipartimento di Chimica e quello di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, e la start-up Raylab in collaborazione con il Laboratorio di Misure Nucleari del Politecnico di Milano. Completano la squadra quattro realtà straniere: il Laboratorio di Dosimetria delle Radiazioni Ionizzanti dell’Istituto di Radioprotezione e di Sicurezza Nucleare di Parigi, il Dipartimento di Biologia Molecolare e l’Istituto Wenner-Gren dell’Università di Stoccolma, il Centro geriatrico Haus Berge dell’ospedale universitario di Essen (Germania) e la Clinica di Radioterapia e Radiooncologia dell’ospedale universitario di Jena (Germania).

I dettagli e le novità relative al progetto NECTAR si possono trovare qui.

Un nuovo progetto PNRR per la cura della malattia di Alzheimer

Nell’aprile del 2024 il Ministero della Salute nell’ambito di un bando PNRR ha finanziato al gruppo coordinato dal Dr. Gianluigi Forloni del nostro Istituto un progetto di ricerca per la cura della Malattia di Alzheimer, lo studio proposto è risultato al primo posto su quasi trecento, nella graduatoria di valutazione espressa dagli esperti del Ministero.  

Il progetto propone un approccio innovativo alla cura della Malattia di Alzheimer identificando come target terapeutico la proteina calcineurina, espressa dagli astrociti, le cellule non nervose più abbondanti a livello cerebrale. Gli astrociti hanno un compito di supporto strutturale e di difesa delle cellule nervose, hanno quindi un ruolo chiave nel garantire il corretto funzionamento del sistema nervoso centrale e nel mantenere l'omeostasi del cervello.

Nella malattia di Alzheimer, l’attivazione degli astrociti svolge un ruolo protettivo inizialmente, ma con il progredire della malattia il persistere dell’attivazione innesca meccanismi che provocano danno alle cellule nervose, tra questi il rilascio di proteine infiammatorie: le citochine. L’aumento dell’attività della calcineurina è ben documentato negli astrociti dei pazienti e contribuisce alla sovra-produzione di citochine. Questa condizione perpetuata nel tempo, conduce inevitabilmente alla progressiva morte dei neuroni, ed è anche responsabile dei danni alle sinapsi e dei difetti di apprendimento e memoria tipici della malattia.

Nei nostri laboratori, attraverso una collaborazione con il Prof. Lim dell’Università del Piemonte, abbiamo dimostrato che eliminando la calcineurina specificamente dagli astrociti preveniamo lo sviluppo della malattia in modelli preclinici di malattia. Questo studio è stato recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Glia.

Grazie al progetto PNRR “Inibizione della calcineurina astrocitaria tramite un approccio di nanomedicina cellula-specifico: una nuova strategia terapeutica per arrestare la progressione della malattia di Alzheimer”, cercheremo di approfondire esattamente il ruolo della calcineurina nella malattia di Alzheimer e di capire perché la sua assenza ne rallenti/impedisca lo sviluppo.

Lo scopo principale del progetto, in una prospettiva di applicazione clinica, sarà però quello di inibire la calcineurina sfruttando una tecnologia molto innovativa basata sulla nanomedicina. Grazie, infatti, ad una collaborazione con il Prof. Filippo Rossi, del Politecnico di Milano, e il Dr Pietro Veglianese dell’Istituto Mario Negri, utilizzeremo nanoparticelle appositamente ingegnerizzate per portare un farmaco (tacrolimus) – che inibisce l’attività della calcineurina – direttamente e specificamente all’interno degli astrociti, sia in modelli murini di malattia, si in cellule umane derivate dai pazienti. Il tacrolimus è un farmaco già ampiamente utilizzato in clinica nei soggetti che hanno subìto un trapianto e che sembra ridurre il rischio di Alzheimer. Se riusciremo ad interrompere il circolo vizioso della malattia agendo solo su una delle cellule maggiormente coinvolte, gli astrociti, avremmo raggiunto un grande traguardo a livello terapeutico.

Il progetto, coordinato dal Dr Forloni e dalla Dr.ssa Claudia Balducci dell’Istituto Mario Negri di Milano, vedrà la collaborazione di altri tre gruppi di eccellenza tra cui il gruppo guidato dal Prof. Dmitry Lim dell’Università del Piemonte, il gruppo del Prof. Filippo Caraci dell’Associazione Oasi Maria SS dell’Università Di Catania, e il gruppo coordinato dalla Prof.ssa Emanuela Esposito dell’Azienda Ospedaliera Universitaria G. Martino di Messina.

Uno studio sul legame tra Alzheimer e intestino attraverso i raggi X

Un importante studio condotta dai ricercatori dell'Istituto Mario Negri di Milano coordinati dalla Dr.ssa Claudia Balducci, e dell'Istituto di Nanotecnologia del CNR di Roma, coordinati dalla Dr.ssa Alessia Cedol, ha evidenziato il ruolo cruciale dell’intestino nella malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno dimostrato che l’XPCT , la nano e micro tomografia a contrasto di fase a raggi X (XPCT), è un potente strumento per studiare le alterazioni dell’intestino, senza una manipolazione invasiva dei tessuti o l’utilizzo di agenti di contrasto.

Questa tecnica non invasiva ha permesso di rilevare alterazioni significative nel microbiota intestinale e nei tessuti intestinali di modelli animali, collegandole alle lesioni cerebrali tipiche della malattia, come placche amiloidi e neuroinfiammazione. Le scoperte suggeriscono che la disbiosi intestinale potrebbe influire sulla progressione dell’Alzheimer attraverso meccanismi infiammatori. Lo studio apre nuove prospettive per la cura dell'Alzheimer, sottolineando il legame fondamentale tra intestino e cervello: l’intestino e il cervello comunicano tra di loro e alterazioni del microbiota intestinale aumentano il rischio di sviluppare malattie neurodegenerative.

"L’XPCT rappresenta una vera svolta per l’analisi approfondita dell’intestino e potrebbe essere fondamentale nella diagnosi precoce e nella prognosi della malattia di Alzheimer”, ha sottolineato la Dr.ssa Cedola del CNR, massima esperta della tecnica.

Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Science Advances.

Claudia Balducci - Unità di Neurobiologia del disturbo cognitivo nelle malattie neurodegenerative - Laboratorio di Biologia delle Malattie Neurodegenerative - Dipartimento di Neuroscienze

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