Data prima pubblicazione
28/4/2023
August 28, 2025

Microplastiche: origini, cosa sono, effetti e pericolosità

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August 28, 2025

Microplastiche: origini, cosa sono, effetti e pericolosità

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Le microplastiche contaminano sempre più terra, acqua, aria, cibo. Gli effetti sulla salute umana non sono ancora chiari, ma le evidenze raccolte finora danno segnali allarmanti.

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Alla fine degli anni '50 l’umanità produceva circa 2 milioni di tonnellate di plastiche l’anno. Oggi ne produce 200 volte di più. Negli ultimi 70 anni abbiamo assistito infatti ad un aumento esponenziale della produzione di plastica: basti pensare che sugli oceani attualmente galleggiano circa 171 mila miliardi di frammenti di plastica. La produzione è destinata ad aumentare ulteriormente nei prossimi anni, soprattutto a causa dei prodotti in plastica "monouso". Insieme alla produzione di plastica, è cresciuta anche la quantità di rifiuti derivati da questo materiale. In seguito al loro lento tasso di degrado, la quantità totale di plastica e derivati continuerà ad accumularsi nell'ambiente, raggiungendo i 12 miliardi di tonnellate entro il 2050.

Origini delle microplastiche: da dove provengono?

Una parte considerevole della plastica deriva purtroppo dallo smaltimento sbagliato: non essendo eliminata correttamente, finisce nell’ambiente. Già nel 1970, durante una spedizione di due mesi attraverso l'Oceano Atlantico, l'esploratore norvegese Thor Heyerdahl raccontò per la prima volta di aver incontrato una vera e propria "isola" di rifiuti di plastica che galleggiava sulla superficie dell’oceano. In seguito a questa scoperta, il Congresso degli Stati Uniti approvò nel 1972 quello che venne definito l'Ocean Dumping Act, un documento che regolamenta le attività di scarico dei rifiuti negli oceani. Purtroppo, quasi 50 anni dopo, i rifiuti di plastica non sono diminuiti. Al contrario, continuano ad aumentare drasticamente.

Microplastiche: che cosa sono?

Si tratta di minuscole particelle di plastica di dimensioni comprese tra 1 µm e i 5 mm di diametro che possono essere prodotte o dall'alterazione di oggetti in plastica o, direttamente dalla fabbriche per prodotti come cosmetici e detersivi. Frammenti di microplastiche si trovano ormai ovunque, nella neve dell'Artico così come nella Foresta Amazzonica. Studi recenti hanno stimato che circa 2.5 milioni di tonnellate di microplastiche finiscono ogni anno negli oceani e, di queste, 430.000 tonnellate si accumulano nel suolo dei paesi europei.

Microplastiche: come si formano?

Tutte le plastiche, da quelle derivate dai prodotti di scarto, che popolano le discariche, a quelle utilizzate per la produzione di pneumatici e perfino quelle impiegate come imballaggi per alcuni alimenti, come le bustine di tè sintetiche, alla fine si degradano. Quello che ne risulta è la formazione di particelle microscopiche chiamate microplastiche, nel caso le loro dimensioni siano inferiori ai 5 mm, o nanoplastiche se hanno dimensioni ancora più piccole. Talmente piccole da essere invisibili ad occhio nudo: le nanoplastiche, avendo un diametro inferiore ai 100 nm, sono più piccole delle cellule che compongono il nostro corpo.

Le micro e nanoplastiche sono state rilevate anche nell’atmosfera e si sa che possono essere trasportate dal vento raggiungendo così anche in zone apparentemente incontaminate del nostro pianeta. La loro presenza è stata rilevata in 201 specie di animali commestibili, nell’acqua potabile e in diversi alimenti destinati al consumo umano, in particolare nei pesci, nei molluschi, nel pollame e nel sale.

Anche i tappi di plastica delle bottiglie possono rilasciare micro-frammenti durante il loro utilizzo, contaminando così le bevande che contengono: ogni volta che ruotiamo il tappo di una bottiglia riversiamo micro frammenti nell’acqua.

Tutti gli animali marini e terrestri, uomo compreso, sono quindi destinati a consumare inevitabilmente e inconsapevolmente microplastiche e nanoplastiche. È stato stimato che negli Stati Uniti, ogni persona ingerisce in media da 74.000 a 121.000 particelle ogni anno. La dimostrazione della presenza di micro e nanoplastiche in campioni di feci umane è inoltre una chiara dimostrazione di ciò che prima si poteva solo ipotizzare.

Tipologie di microplastiche: primarie e secondarie

Oltre che sulla base delle loro dimensioni, le particelle di plastica presenti nell’ambiente possono essere classificate in base alla loro origine. Distinguiamo principalmente tra:

Microplastiche primarie

Le microplastiche prodotte volontariamente dall’uomo e inserite nei prodotti sono definite come primarie. Vengono rilasciate direttamente nell’ambiente in seguito ad usura o durante il loro utilizzo, e si stima che rappresentino il 15-30% delle microplastiche presenti negli oceani. Ne sono un esempio le microparticelle rilasciate dai capi di abbigliamento durante i lavaggi, quelle derivate dall’usura degli pneumatici e quelle che si liberano durante l’uso di alcuni prodotti cosmetici come gli scrub, i dentifrici o alcune creme.

Microplastiche secondarie

Più comuni, invece, come contaminanti ambientali sono le microparticelle secondarie, cioè quelle che si formano dalla degradazione degli oggetti di plastica “dimenticati” o "dispersi" nell’ambiente come abbigliamento sintetico, attrezzature da pesca abbandonate, imballaggi in plastica dispersa o rifiuti plastici provenienti da discariche non gestite correttamente: si stima che rappresentino circa il 70-80% delle microparticelle ritrovate negli oceani.

Pochi sanno, inoltre, che le microplastiche derivanti da abiti sintetici si riversano nell'ambiente quotidianamente: la maggior parte viene rilasciata nei primi lavaggi dei tessuti. Questo vale in particolare per i capi dell'industria del "fast fashion" che, a causa della loro scarsa qualità, durano meno e si degradano più velocemente.

Effetti delle microplastiche: ecco il loro possibile pericolo

Osservazioni recenti effettuate dagli scienziati su organismi acquatici e roditori dimostrano la capacità di queste nanostrutture di attraversare le barriere biologiche, quali la placenta e la barriera intestinale, e di accumularsi nell’intestino modificando la composizione del microbiota.

Ulteriore pericolo legato alla dispersione delle micro e nanoplastiche è la capacità di creare legami sulla loro superficie con molecole estremamente reattive e potenzialmente tossiche, quali metalli pesanti e prodotti di fotocatalisi. Tale processo, meglio noto come “doping-effect”, favorisce fortemente la capacità di penetrare all’interno delle cellule di questi complessi  ibridi e potenziarne il loro effetto citotossico e oncogenico.

A destare crescente attenzione nella comunità scientifica, inoltre, è l'effetto delle microplastiche sul cervello umano: studi recenti indicano che le particelle più fini sono in grado di oltrepassare la barriera emato-encefalica, struttura che normalmente protegge il cervello da sostanze nocive presenti nel sangue. Al momento non è chiaro se e come queste sostanze danneggino le nostre capacità cognitive. Sugli esseri umani, infatti, non è possibile condurre gli stessi esperimenti già effettuati su animali da laboratorio come i topi. Eppure le evidenze raccolte finora lasciano supporre conseguenze gravi.

Oggi sappiamo che l'esposizione a microplastiche compromette la capacità dei topi di orientarsi nei labirinti, ne danneggia la memoria a breve termine, fa perdere loro l'istinto di sopravvivenza. Ci sono prove che dimostrano che, se normalmente un topo riconosce un oggetto già visto, quando esposto a frammenti di plastica si comporta come se lo incontrasse per la prima volta, annusandolo a lungo come fosse nuovo. David Baracchi, professore associato di Zoologia all'Università di Firenze ha coordinato una ricerca dove è stato dimostrato come il polietilene, uno degli inquinanti ambientali più comuni, sia in grado di danneggiare anche la memoria delle api da miele: gli insetti, nutriti con una soluzione di saccarosio contaminata con microplastiche, hanno problemi a imparare e dimenticano in fretta quello che apprendono, con conseguenze gravissime in natura. E sono solo alcuni esempi.

La distribuzione ubiquitaria delle micro e nanoplastiche nell’ambiente rappresenta quindi un’emergenza mondiale e suscita molta preoccupazione soprattutto per il loro possibile impatto sulla salute di tutti gli esseri viventi.

Per chiarire gli effetti dell’esposizione alle micro e nanoplastiche sulla salute dell’uomo nel Dipartimento di Biochimica e Farmacologia Molecolare sono in corso diversi studi. Luisa Diomede e Paolo Bigini coordinano un progetto finanziato dalla Comunità Europea denominato” Platform Optimisation To Enable NanomaTerIAL safety assessment for rapid commercialisation” (POTENTIAL) che coinvolge 12 partner internazionali (Italia, Spagna, Francia, Germania, Lussemburgo, Irlanda, Bulgaria e Cina), e che è volto a correlare le proprietà strutturali delle nano e microplastiche con il loro impatto ambientale e biologico.

I ricercatori, inoltre, sono interessati a chiarire i meccanismi con cui l’accumulo negli organi o nei tessuti delle micro e nanoplastiche può favorire l’insorgenza di alcune patologie causate dalla formazione e dall’accumulo di aggregati proteici tossici note con il nome di amiloidosi, come l’Alzheimer, il Parkinson, l’Huntington, la Sclerosi Laterale Amiotrofica familiare e, anche se più rare, le amiloidosi sistemiche. Queste malattie rappresentano un gruppo eterogeneo di patologie causate da proteine che normalmente sono presenti nel nostro organismo e che, per ragioni ancora non note, ad un certo punto assumono una conformazione diversa da quella nativa. Come riportato in una recente pubblicazione, le micro e nanoplastiche, accumulandosi nei vari organi anche a livello del sistema nervoso centrale, possono innescare il cambio conformazionale di alcune proteine favorendo così l’insorgenza di amiloidosi.

Quali sono le soluzioni al problema delle microplastiche?

Se fino a qualche anno fa si poteva pensare che il problema fosse “solo” di tipo ambientale, ora sappiamo che la contaminazione da micro e nanoplastiche rappresenta un’emergenza anche per la salute dell’uomo.

La soluzione non è univoca e sono richiesti sforzi congiunti per rimediare ai danni prodotti finora, sia da parte dei singoli cittadini che devono cambiare le loro abitudini, sia da parte delle autorità politiche-regolatorie e del mondo produttivo.

ll riciclo contribuisce a ridurre la quantità di rifiuti, ma solo in minima parte: attualmente riusciamo a recuperare solo il 9 per cento della plastica prodotta. La maggior parte finisce nell'ambiente, contaminando oceani, campi, foreste.

Sono necessari sforzi per cercare di ridurre la produzione dei prodotti plastici al fine di prevenire il rilascio di nuove micro e nanoparticelle nell’ambiente. Il mondo scientifico e tecnologico sta inoltre lavorando per trovare il modo di accelerare la degradazione della plastica già prodotta e presente nell’ambiente, per esempio utilizzando microrganismi o sostanze enzimatiche.

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